Cosa intendiamo quando diciamo «in Bangladesh c’è l’Isis»

In Uncategorized by Simone

Con la strage dell’Holey Artisan Bakery di Gulshan, quartiere dell’upper class di Dhaka, anche in Italia, con nove connazionali vittime dei terroristi, ci siamo ritrovati obbligati a chiederci se, come ed eventualmente da quando il terrore del Califfato abbia penetrato lo storicamente «moderato» Bangladesh. Uno stato lontano dagli occhi e dal cuore, pressoché sconosciuto nelle sue caratteristiche peculiari e storiche che, negli anni, è stato ingiustamente inserito nel circolo delle nazioni del terrore di Isis, confondendo non solo la percezione internazionale dei problemi interni ma, soprattutto, le pressioni politiche globali contro il governo di Sheikh Hasina, che si è dimostrato incapace di arginare la deriva terroristica locale e ora non può più negare che in Bangladesh ci sia un problema Isis. Proviamo a capirne l’entità.Su queste pagine, negli anni passati, abbiamo seguito l’evolversi della deriva terroristica locale in Bangladesh con particolare attenzione, riportando quanto più puntualmente possibile il verificarsi di continui attentati ai danni inizialmente della società civile – blogger, professori, scrittori – fino, in tempi più recenti, contro vittime «occidentali», tra cui il cooperante italiano Cesare Tavella.

Il contesto

Ma il problema dell’estremismo islamico nel paese risale a diversi anni prima, almeno al 2010, quando la prima ministra Sheikh Hasina (Awami League) decise di aprire un processo per crimini di guerra per i fatti del 1971, anno dell’indipendenza del Bangladesh dal Pakistan ottenuta dopo una guerra intestina tra indipendentisti (tra cui il padre di Hasina, Mujibur Rahman) e collaborazionisti bangladeshi. [ndr: per comodità riporto uno stralcio di un pezzo già uscito su il manifesto]

Alla sbarra vennero presentati numerosi membri dei partiti di opposizione – in particolare di Jamaat e Islami (JeI), sigla estremista islamica accusata anche di terrorismo e contatti con l’estremismo pakistano – colpevoli di collaborazionismo con le forze pakistane. Gente come Abdul Kader Mullah, il «macellaio di Mirpur», e Motiur Rahman Nizami, entrambi leader di JeI sentenziati a morte dalla giustizia di stato, senza contare le accuse accessorie a vari quadri del Bangladesh nationalist party (Bnp), partito decisamente più islamista di Awami, accusato di alleanze scellerate coi «traditori della patria».

Lo zelo del sistema giuridico, usato come arma contundente per annientare l’opposizione capitanata da Khaleda Zia, mise le basi per una guerra a intensità crescente tra le due anime della popolazione bangladeshi, sfociando nel 2013 nel movimento di piazza Shahbagh, quando migliaia di studenti e manifestanti laici chiedevano che venisse fatta giustizia col sangue per i criminali di guerra.

Accontentati dal tribunale per i crimini del ‘71, le stesse anime di Shahbagh si riscoprirono presto bersagli della vendetta dell’estremismo islamico, che con azioni mirate iniziava a colpire professori universitari, blogger «razionalisti», fedeli hindu, cristiani, attivisti Lgbtq fino ad allargare il cerchio, più recentemente, assassinando i cooperanti Cesare Tavella e il giapponese Kunio Hoshi nel 2015. Si trattava di aggressioni fulminee a colpi di machete, con piccoli commando di due o tre persone pronte a darsi alla fuga in motocicletta, facendosi inghiottire dall’anonima sovrappopolazione bangladeshi.

Le modalità locali degli attentati

E qui c’è il primo discrimine: tutti gli attentati che hanno preceduto il massacro di Gulshan mostravano una dinamica assolutamente «artigianale» del terrore, povera di effetti speciali mediatici tipici del Califfato che invece ora ritroviamo chiaramente nell’attacco alla Holey Artisan Bakery.

Il commando di Gulshan, secondo quanto ci dice la stampa bangladeshi, pare fosse formato da giovani bangladeshi provenienti da famiglie abbienti dell’upper class locale, gente che ha studiato in istituti in inglese, talvolta anche all’estero (in Malaysia). e che era «sparita» dalle proprie case negli ultimi sei mesi. E anche qui si può misurare una distanza siderale con l’identikit dei presunti responsabili dei precedenti attentati, di estrazione sociale decisamente più bassa, molti residenti nelle campagne del paese (dove si sono verificati decine di attentati).

In tutti i casi precedenti il gioco delle rivendicazioni, al quale la stampa occidentale si è acriticamente piegata seguendo le indicazioni dell’agenzia di intelligence statunitense Site – che si occupa di monitorare le comunicazioni online della rete jihadista, operando da un ufficio nel Maryland senza uno straccio di contatto sul campo in Bangladesh – ha mostrato una lotta mediatica tra al-Qaeda e Isis per appropriarsi degli attentati portati a compimento, secondo le autorità bangladeshi, da cellule locali come Ansarullah Bangla Team e Jamatul Mujahieddin Bangladesh (Jmt), attive nel territorio bangladeshi da ben prima la fondazione del Califfato.

Nessun controllo serio sulle rivendicazioni

La situazione quindi sembra essere la seguente: in Bangladesh, negli ultimi anni, si è registrata un’impennata del fanatismo religioso e diversi militanti appartenenti a piccoli gruppi locali hanno portato a compimento attacchi mirati contro i «nemici della fede»; ad attentato compiuto, nella rete caotica delle comunicazioni del jihadismo internazionale compaiono rivendicazioni di Isis o al-Qaeda (a volte, due rivendicazioni per uno stesso attentato), al fianco di speculazioni internazionali su chi abbia giurato fedeltà a chi (e anche qui sarebbe interessante capire come vengono scremate le dichiarazioni di affiliazione dalla stampa internazionale, trattandosi di gruppi clandestini che non controllano una porzione di territorio in Bangladesh e, soprattutto, non dispongono di una macchina delle pubbliche relazioni come quelle di al-Qaeda e Isis).

Parrebbe assennato sostenere che il terrorismo islamico in Bangladesh ha radici e motivazioni prettamente locali, stop, ma quando si manifesta in attentati finisce invece nel calderone delle speculazioni mediatiche globali, che appiattiscono le peculiarità locali e le radici dell’estremismo bangladeshi ficcando tutto nel macroinsieme di Isis.

In questo l’agenzia Site presieduta da Rita Katz negli anni si è presa responsabilità importanti nell’asserire sistematicamente che gli attentati in Bangladesh fossero opera di Isis, solo perché Isis – a volte nemmeno Isis, ma profili online «vicini a Isis» – li rivendicavano. Il tutto senza uno straccio di conferma sul campo, una foto, un comunicato della cellula bangladeshi incriminata, prove di finanziamento diretto o di addestramento.

Le asserzioni di Site – che è l’unica agenzia a riportare queste recriminazioni, non confermate né da intelligence bangladeshi né occidentale – sono state riprese sistematicamente come Il Verbo, glissando sul contesto storico e su modalità che avrebbero dovuto ispirare quantomeno una certa cautela.

Pressione internazionale per un problema che non c’era

Il cortocircuito ha portato a conseguenze assolutamente nefaste nella reazione del governo bangladeshi al terrorismo di matrice islamica locale.

La premier Sheikh Hasina, riporta il Dhaka Tribune, nel mese di novembre (nota: stiamo parlando di mesi prima la radicalizzazione dei ragazzi del commando di Gulshan) aveva dichiarato che l’amministrazione era soggetta a un’«enorme pressione internazionale» per far ammettere al Bangladesh la presenza di Isis nel paese. Una presenza che Dhaka, giustamente, fino a quel momento aveva sempre escluso, presentando un contesto che confermava ragionevolmente le tesi di chi attribuiva le responsabilità a cellule locali impegnate in uno scontro tutto locale tra estremisti – appoggiati da sigle politiche locali come Jamaat e Islami – e moderati/laici.

Ora il pericolo Isis c’è davvero

E arriviamo a venerdì scorso, quando la strage al ristorante-pasticceria di Gulshan mostra, per la prima volta nel paese, i segni manifesti di una presenza di Isis in Bangladesh: i terroristi non colpiscono e scappano, ma si immolano facendo montare mediaticamente l’azione inscenando un sequestro di una notte che, secondo le ultime notizie, dobbiamo considerare finto (la polizia di Dhaka dice che i 20 ostaggi sono stati uccisi nei primi venti minuti dell’azione); nel frattempo Amaq, l’agenzia di stampa dell’Isis, rivendica l’attentato divulgando fotografie dei componenti del commando – sorridenti con fucile alla mano davanti alla bandiera dello Stato Islamico – e altre immagini del massacro scattate sul posto, probabilmente inviate dagli stessi terroristi.

L’effetto terrore globale è compiuto e ora, a ragione, la comunità internazionale premerà su Dhaka per un cambio di strategia che risulti più efficace della negazione ostinata di un pericolo terrorismo internazionale in Bangladesh (che il governo sembra però ancora mantenere, imputando la responsabilità dell’ultimo massacro a Jmb).

Rimane da appurare quanto a fondo sia penetrato Isis nel paese, premesso che al momento, come spiega molto bene Amarnath Amarasingam della George Washington University (attivo nel Program on Extremism dell’ateneo) al New Yorker, «la cosa più importante è che Isis ha rivendicato l’azione, e Isis non rivendica azioni che non ha fatto [ndr: in questo passaggio l’accademico squalifica in una sola frase tutte le rivendicazioni precedenti riportate, ricordiamo, solo dall’agenzia Site, e riprese da tutti i media occidentali]. Ciò non significa che Abu Bakr al-Baghdadi abbia un contatto telefonico con questi ragazzi e dica loro cosa devono fare. Non significa che il commando fosse in contatto diretto con la leadership di Isis o riceva fondi da loro. Possiamo solo dire che esistono dei collegamenti».

[Scritto per Eastonline]