niger

Africa rossa – La Cina pronta a mediare in Niger?

In Africa Rossa, Relazioni Internazionali by Alessandra Colarizi

Dal golpe in Niger a quello in Gabon, dai Brics al vertice sul clima di Nairobi. Di questo e molto altro nell’ultima puntata della rubrica Africa rossa a cura di Alessandra Colarizi.

  • La Cina pronta a mediare in Niger?
  • I Brics una vittoria per la Cina (e per l’Africa)
  • La Cina un paese in via di sviluppo “forever”
  • Tutti pazzi per l’avocado
  • Le promesse di Xi
  • Un treno chiamato Cina
  • Alla ricerca di una nuova base militare
  • Da Nairobi appelli per una riforma dell’ordine finanziario globale
  • Tsai a eSwatini

Un altro mese, un altro golpe in Africa. Mercoledì 30 agosto il Gabon è diventato l’ottavo paese africano a registrare un colpo di stato in appena tre anni. Il secondo in poco più di un mese dopo il colpo di mano compiuto dalla giunta militare del Niger a fine luglio. Burkina Faso, Mali, Sudan, Niger.. la zona interessata è sempre la stessa: il Sahel, regione a cui la Farnesina attribuisce “valore strategico sotto il profilo della sicurezza, della gestione del fenomeno migratorio e del contrasto ai traffici illeciti favoriti dal fragile tessuto, economico e istituzionale”, pur riconoscendone la “precarietà socio-economica, vulnerabilità ambientale, frammentazione e difficoltà di funzionamento delle istituzioni nei territori periferici, si sono aggiunti ulteriori fattori di instabilità derivanti dai cambiamenti climatici, dalla crescita demografica, dalla pandemia e dall’estremismo jihadista.” Gabon e Guinea (nel 2021) estendono la crisi più a sud, in un contesto politico e sociale differente.

Per la Cina l’ascesa dei regimi golpisti ha due risvolti, uno negativo e l’altro potenzialmente positivo: da una parte l’instabilità dei governi locali mette a rischio gli interessi cinesi nel continente, dall’altra l‘ascesa dei regimi militari sta costringe le potenze occidentali ad arretrare dalla regione saheliana, a volte spontaneamente a volte su “richiesta”. Un vuoto che il gigante asiatico – con il suo agnosticismo politico e la sua propensione al rischio – sembra intenzionato a colmare. Sembra perché, come da abitudine cinese, Pechino non lascia trasparire un granché le sue preferenze. Detto ciò, va notato come l’assioma della non ingerenza viene applicato con varie sfumature a secondo dei casi.

Commentando il golpe a Libreville, il ministero degli Esteri cinesi ha dichiarato che Pechino “segue da vicino l’evoluzione della situazione in Gabon e invita le parti interessate ad agire nell’interesse del popolo gabonese”, per un “immediato ritorno” all’ordine costituzionale, e “a garantire la sicurezza personale del presidente”. Precisazione non scontata ma considerato che, ad aprile Ali Bongo Ondimba (al potere da cinquant’anni)  era stato ricevuto da Xi Jinping nella Grande Sala del Popolo. L’incontro era finito con la decisione di elevare le relazioni Cina-Gabon a “partenariato cooperativo strategico globale”.

Dello stesso tono il comunicato rilasciato dopo il colpo di stato in Niger, quando Pechino – auspicando una “soluzione politica” della crisi – definì il presidente Bazoum “un amico della Cina”. Il Diavolo è nei dettagli, dicono gli anglosassoni. Analizzando la scelta lessicale del dicastero, traspaiono gradi differenti di apprensione. Come evidenziato da diversi analisti, la generale discrezione cinese è stata accantonata veramente solo in un caso: dopo il golpe in Guinea, nel settembre 2021, le autorità di Pechino hanno utilizzato un’espressione più assertiva: “la Cina chiede l’immediato rilascio del presidente Alpha Conde”, anziché limitarsi a “sperare”, “auspicare” e “domandare rispetto”. Il motivo sta nella posta in gioco. 

Il Gabon è un importante esportatore di greggio e minerale di manganese, che da soli contano per l’83% dell’economia locale. Ma gli investimenti cinesi sono piuttosto limitati e le importazioni di petrolio gabonese costituiscono una parte infinitesimale delle forniture nazionali. Anche in Niger la Repubblica popolare ha interessi petroliferi e minerari (soprattutto nell’estrazione dell’uranio), inclusa la costruzione di un oleodotto lungo 2.000 km (1.243 miglia) – il più lungo d’Africa – che dovrebbe collegare i giacimenti nel sud-est del paese a un terminal portuale nel vicino Benin. Dalla Guinea, invece, il gigante asiatico importa circa la metà del suo fabbisogno di bauxite. Come se non bastasse, il terremoto politico a Conakry ha coinciso con l’imposizione di restrizioni commerciali contro l’Australia (primo produttore mondiale del minerale) in risposta alla richiesta di indagini sull’origine del Covid. Come spiegavo tempo fa, tendenzialmente la non ingerenza scricchiola quando Pechino vede gravemente minacciati i propri capitali.

Dalla reazione ai colpi di stato è quindi possibile dedurre a grandi linee quali sono i paesi africani (e di conseguenza i settori economici) su cui la Cina vuole puntare di più. Dieci anni fa, in Sud Sudan, le autorità cinesi assunsero un ruolo attivo nei negoziati di pace. Lo stesso non è avvenuto dopo l’ultimo golpe in Sudan, paese scivolato indietro nella classifica dei fornitori cinesi di greggio. Di ieri la notizia che “il governo cinese intende fornire buoni servizi e svolgere un ruolo di mediazione per raggiungere una soluzione politica alla crisi del Niger che rispetti gli interessi dei paesi circostanti”. Si capisce come il gigantesco oleodotto – in cui la Cina ha già investito 4 miliardi di dollari – non è qualcosa da lasciare in balia degli eventi. Ma passare dalle parole ai fatti non è mai semplice.

Il dibattito online non è meno suggestivo dei proclami ufficiali. Parafrasando ignoti “esperti”, il tabloid nazionalista Global Times sostiene che “le principali preoccupazioni dell’Occidente sul colpo di stato non riguardano le questioni umanitarie in Gabon, ma piuttosto il timore che un nuovo governo non filo-occidentale possa prendere il potere”. Posizione che non stupisce considerato il clima internazionale, ma che sembra dimostrare una scarsa consapevolezza del fatto che alle nostre latitudini il golpe in Gabon viene considerato “ diverso”. Ancora più interessante è il commento rilasciato dal popolare account  Wechat 景舟说史, secondo il quale “la Russia forse sta appoggiando il colpo di stato con l’intenzione di controllare i canali di approvvigionamento dell’uranio della Cina e, se dovesse arrivare al potere nuovo governo sostenuto da Mosca, la Cina potrebbe trovarsi ad affrontare rischi geopolitici in termini di forniture”. Come se non bastasse, il blogger prosegue accusando la Russia di voler “rafforzare la sua influenza sulla Cina e impedire alla Cina di supportare gli Stati Uniti nella questione russo-ucraina.” Qui lo stupore è più giustificato, anche se in Africa spesse volte Mosca e Pechino sono parse pestarsi i piedi (ne ho scritto recentemente per un dossier dell’Ispi), mentre in altri casi semplicemente l’allineamento non è totale. Solo mercoledì scorso, la Russia ha posto il veto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite su una bozza di risoluzione per prorogare le sanzioni contro il Mali, proposta da Francia ed Emirati Arabi Uniti. La Cina invece si è astenuta.

Dunque, come dicevamo, Pechino non ama intromettersi nella politica interna degli altri paesi. Eppure quando coinvolti sono i vecchi amici il governo cinese si abbandona a qualche “trasgressione”. Lunedì scorso il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Wang Wenbin, si è congratulato con Emmerson Mnangagwa il presidente dello Zimbabwe– giunto al potere nel 2017 proprio con un colpo di mano –  riconfermato alle ultime elezioni (considerate dagli osservatori internazionali non libere) dopo una campagna elettorale contraddistinta da una dura repressione dell’opposizione. Lo Zimbabwe è uno dei soli 14 paesi che la Cina considera un “amico per tutte le stagioni”. C’è da scommetterci che in caso di un (altro) golpe ad Harare i toni di Pechino sarebbero meno pacati del solito.

I Brics una vittoria per la Cina (e per l’Africa)

Una vittoria per la Cina in Occidente, una vittoria per l’Africa in Africa. Terminato il vertice dei Brics, due narrazioni a confronto dimostrano come gli organi d’informazione nostrani considerino ancora i paesi africani delle vittime o nella migliore delle ipotesi degli attori passivi. Pedine di un grande gioco disputato dalle potenze occidentali e asiatiche. Plurale reso necessario dall’ascesa di “nuovi” (si fa per dire) interlocutori, quali Giappone, Emirati Arabi e Turchia. In realtà, gli analisti africani non hanno mancato di rimarcare come molte delle richieste cinesi sostenute a Johannesburg circolino nel continente da decenni. Semplicemente Pechino ha il peso politico per dar loro una visibilità internazionale. 

La Cina un paese in via di sviluppo “forever”

A questo proposito ha suscitato non poche alzate di sopracciglio – anche in patria – una frase pronunciata da Xi. Letteralmente: “La Cina ha sempre condiviso il destino delle nazioni in via di sviluppo. È stata, è ora e sarà per sempre un membro del mondo in via di sviluppo!” China Media Project ha ricostruito l’origine della controversa espressione, comparsa per la prima volta lo scorso aprile poco dopo la proposta della Camera dei Rappresentanti di privare la Cina dell’etichetta di “nazione in via di sviluppo” presso le organizzazioni internazionali. Abbastanza chiaramente, nella mente di Xi, il termine ha un’accezione politica, non economica. 

Mentre la stampa internazionale continua a interrogarsi sulla competizione Brics-G7, il vertice ha molti aspetti più “africani” che meritano attenzione. Innanzitutto perché tra i nuovi sei stati ad aderire alla piattaforma due sono africani: Egitto ed Etiopia. Con l’aggiunta di Emirati Arabi, Arabia Saudita e Iran – secondo l’analista Oliver Stuenkel – cinque dei nuovi membri compongono una macroarea che restituisce il focus geografico degli interessi cinesi. Egitto ed Etiopia sono inoltre rilevanti per alcune caratteristiche proprie: l’Etiopia è la sede dell’Unione Africana nonché l’unico paese del continente a non aver subito l’occupazione coloniale europea. L’Egitto viene considerato un centro nevralgico dell’area MENA, nonché la porta d’accesso al Mediterraneo. E nonostante sia un importante alleato di Washington, è altresì in ottimi rapporti con Cina e Russia. Potrebbe rivelarsi più problematico il travagliato rapporto tra i due: Addis Abeba e il Cairo a luglio hanno avviato negoziati accelerati volti a finalizzare l’accordo col Sudan sul riempimento della diga, superando i motivi di contesa tuttora presenti. Un altro elemento di divisione interna per i Brics? 

Forse. Per il momento tuttavia il vertice è servito a consolidare alcune dinamiche. Da una parte è stata riaffermata la centralità (economica e geopolitica) del Sud Africa, il paese da cui parte l’export dell’Africa Sub-sahariana, con cui Pechino e Mosca hanno realizzato a febbraio esercitazioni navali, e dove Xi ha effettuato più visite in assoluto: ben quattro dall’assunzione della presidenza nel 2013. Una in meno della Russia, la meta estera più frequentata dal presidente cinese. Dall’altra trova conferma l’impegno di Pechino a sfidare l’Occidente attraverso la creazione di nuove piattaforme multilaterali con il Sud globale. Xi lo ha detto esplicitamente: “La situazione geopolitica è cupa”. Per questo la “famiglia Brics” dovrebbe “unire le nostre forze, unire la nostra saggezza per rendere la governance globale più giusta ed equa”. Proprio in quest’ottica il leader di Pechino ha anche promesso che “la Cina continuerà a lavorare per favorire l’adesione dell’Unione africana al G20” auspicando “un ruolo maggiore” del continente “negli affari internazionali e regionali”. 

Citando la Global Civilization Initiative (GCI) e la Global Security Initiative (GSI), a Johannesburg Xi ha parlato di “scambio di civiltà” e “apprendimento reciproco”, nonché della necessità di aderire a “un nuovo concetto di sicurezza che sia comune, globale, cooperativo e sostenibile”. Dall’inizio della guerra in Ucraina, la Cina ha dimostrato di saper sfruttare la distrazione di Mosca per accelerare la propria penetrazione in Asia centrale. Qualcosa di simile potrebbe avvenire in Africa, o forse sta già avvenendo come suggerisce il rapido aumento delle sinergie militari con le capitali del continente. Un terreno, quello della difesa, fino a poco tempo fa di pertinenza russa. D’altronde, i limiti di Mosca nel continente sono affiorati a luglio, quando al vertice africano indetto da Putin hanno partecipato appena 17 paesi sugli oltre 50 invitati. Ma è soprattutto contro gli Stati Uniti che sono diretti gli strali cinesi. “Ciò di cui il mondo ha bisogno oggi è la pace, non il conflitto; ciò che il mondo vuole è il coordinamento, non lo scontro”, ha sentenziato Xi richiamando i principi della GSI. Richiamando i principi della GSI. Poi ha invitato i “paesi in via di sviluppo” a opporsi alle sanzioni unilaterali e all’approccio del ‘piccolo cortile, alta recinzione’”. Chiaro riferimento alla versione americana del “de-risking” europeo che solo di recente si è concretizzata con l’introduzione delle prime restrizioni sugli investimenti tecnologici in Cina. Così come non ci sono dubbi su a chi si rivolgesse Xi nel dire che “alcuni paesi, ossessionati dal mantenimento della propria egemonia, hanno fatto di tutto per paralizzare i paesi emergenti e in via di sviluppo con l’obiettivo del contenimento”.

Sono parole che ricevono ampio ascolto in Africa, dove le ferite dell’imperialismo occidentale sono ancora aperte. Una forte relazione e una proficua cooperazione Cina-Africa “daranno nuovo slancio allo sviluppo globale e assicureranno una maggiore stabilità del mondo”, ha scritto il presidente cinese in un articolo pubblicato pochi giorni fa dai media sudafricani. Secondo il leader di Pechino, 2,8 miliardi di cinesi e africani sono chiamati a “una responsabilità internazionale” e a “una missione storica”. Xi ha parlato di “iniziative di sviluppo più attive, efficaci e sostenibili”, con un focus particolare sulla cooperazione nell’agricoltura, nell’industria manifatturiera, nella nuova energia e nell’economia digitale.

Si intravede quel concetto di “sogno sino-africano” teorizzato da Xi nel 2015: la Cina, ex fabbrica del mondo, ha molto da insegnare al continente in termini di sviluppo economico. Anche considerando gli errori commessi: la crescita trainata dagli investimenti infrastrutturali ha permesso al gigante asiatico di superare brillantemente la crisi finanziaria globale del 2008. Ma mai come oggi mostra i suoi limiti: gli smottamenti del settore immobiliare affondano le radici in un paradigma di sviluppo che per due decenni ha alimentato l’accumulazione di debiti sommersi. Un tema molto sentito nel continente.

L’Africa non chiede più alla Cina investimenti, bensì modernizzazione industriale, ha spiegato Wu Peng, responsabile per l’Africa presso il ministero degli Esteri cinese, alludendo ai 160 miliardi di dollari prestati dal gigante asiatico nella regione e che negli ultimi trent’anni l’hanno reso responsabile per il 13% del debito africano. Non è del tutto una novità. Dall’ultimo Forum Cina-Africa del 2021 i rapporti con il continente hanno visto un evidente allontanamento di Pechino dalle grandi opere. 

Per capire il nuovo corso sino-africano basta buttare un occhio alla Zona economica dell’Autorità del Canale di Suez, dove recentemente è stata posta la prima pietra della fabbrica cinese Cady Misr, specializzata nella produzione di tessuti di alta qualità e abbigliamento rispettoso dell’ambiente, con un investimento di 60 milioni di dollari. Come riporta Nova, “la zona industriale cinese comprende più di 130 strutture industriali e di servizi con investimenti pari a 1,6 miliardi di dollari. I prodotti realizzati nella fabbrica saranno esportati sui mercati europei e statunitensi. Il progetto è stato realizzato in tre fasi, con la prima fase che inizierà nel 2023 e terminerà entro la fine del 2024. La capacità produttiva della fabbrica, una volta completata la costruzione, è di circa 50.000 tonnellate di tessuti, compresi quelli ecologici, e di 8 milioni di capi di abbigliamento senza cuciture all’anno.”

Tutti pazzi per l’avocado

Prosegue anche la collaborazione nel comparto agricolo. Con qualche contraccolpo, però. Tra i 25 accordi firmati durante la visita di Xi compare l’intesa per l’importazione di avocado dal Sud Africa. Se non fosse che “il volume degli avocado importati quest’anno è raddoppiato rispetto a prima”, racconta un commerciante cinese, aggiungendo che i prezzi sono in calo del 30-40%. “Le quantità in arrivo sono eccessive e la qualità non è buona come prima. È questa la ragione principale del rallentamento del mercato”. D’altronde il Sud Africa sconta un netto ritardo su paesi come il Kenya, cha a giugno aveva già spedito nella Repubblica popolare avocado per 64 milioni di dollari nell’arco di soli tre mesi.

 Le promesse di Xi

Al termine dei Brics si è tenuto il Dialogo tra i leader di Cina e Africa. Meno mediaticamente attraente ma ugualmente “sostanzioso”, il mini vertice è terminato con alcune promesse: 

-la Cina prevede di formare ogni anno 500 presidi e docenti di istituti professionali africani e 10.000 tecnici, anche con l’insegnamento del mandarino. 20.000 funzionari e tecnici governativi africani saranno inoltre invitati dalle autorità cinesi per partecipare a workshop e seminari. 

-Le istituzioni finanziarie cinesi lanceranno presto un fondo speciale da 10 dollari

miliardi di dollari per sostenere lo sviluppo globale. O meglio per supportare la Global Development Initiative (GDI), annunciata nel 2021 da Xi in occasione dell’Assemblea generale dell’Onu.

-Pechino ha infine istituito un Fondo per lo sviluppo globale e la cooperazione sud-sud

con un finanziamento totale di 4 miliardi di dollari.

-Pechino sospenderà il pagamenti sul debito dell’Etiopia in scadenza nel periodo 2023-2024 nell’ambito del Common Framework del G20.L’Etiopia è il secondo paese africano più indebitato nei confronti della Cina per un importo stimato di 13,7 miliardi di dollari.

 

Il vertice dei Brics ha inoltre fornito l’occasione per tirare un bilancio dei rapporti con il continente. Alcuni numeri utili:

-La Cina ha firmato accordi BRI con 52 dei 53 paesi africani con cui ha rapporti ufficiali.

-Nella prima metà di quest’anno, gli IDE cinesi nel continente hanno raggiunto gli 1,82 miliardi di dollari, segnando una crescita del 4,4% su base annua. 

-Secondo il ministero degli Esteri, in Africa operano più di 3.000 aziende cinesi, di cui oltre il 70% private.

I leader africani alla corte di Xi

 Il vertice dei Brics è strafinito, eppure in Cina di Africa si continua a parlare quasi quotidianamente. Prosegue infatti senza sosta il pellegrinaggio dei leader africani alla “corte” di Xi Jinping. Ultimo in ordine di tempo il presidente del Benin, Patrice Talon, preceduto negli scorsi mesi dalle delegazioni – tra gli altri – di Sierra Leone, Eritrea, Etiopia, Gabon e Repubblica democratica del Congo. Secondo The China Global South Project, va notato come la visita di Talon a Pechino abbia coinciso con “uno sconvolgimento politico su larga scala in vaste aree dell’Africa francofona che permetteranno alla Cina di beneficiare del declino dell’influenza francese e statunitense nella regione. L’incontro tra Xi e Talon evidenzia anche la pratica di lunga data che vede Pechino dare priorità alla ‘diplomazia dei piccoli Stati’, strategia che i paesi del G7 hanno faticato a portare avanti in modo coerente nel corso degli anni.” Di parere diverso gli esperti cinesi. Per Song Wei, docente presso la School of International Relations and Diplomacy della Beijing Foreign Studies University, stando al quale la cooperazione con la Cina aiuterà il paese africano a “raggiungere uno sviluppo indipendente”. Il segreto del “modello cinese” – assicurano i cinesi – è proprio di non aver seguito alcun modello preconfezionato. Questo è anche il messaggio che Pechino vuole trasmettere al resto del Sud globale.

Va detto però che la frequenza delle missioni africane in Cina alimentano l’impressione di un’asimmetria del rapporto, specialmente dopo la visita lampo di Xi a Johannesburg. Pur mancando dal continente da cinque anni, il presidente cinese ha optato per un rimpatrio immediato appena concluso il summit dei Brics, anziché cogliere l’occasione per estendere la visita ad altri stati limitrofi come avvenuto in passato. 

Un treno chiamato Cina

In Africa tutti le vogliono. Stiamo parlando delle ferrovie, sinonimo di modernità. Abbattono i costi e riducono i tempi di trasporto. Su The China Global South Project gli autori di  Africa’s Railway Renaissance: The Role and Impact of China spiegano perché “non è possibile comprendere la storia dei rapporti Cina-Africa se non si comprende il ruolo fondamentale che le ferrovie hanno svolto nello sviluppo della narrativa Cina-Africa.” 

Solo recentemente, l’Uganda ha deciso di rimodernare la vecchia ferrovia (costruita dagli inglesi e in disuso da 40 anni), che dal nord del paese arriva fino al confine con il Kenya. Il progetto per costruirne una nuova a scartamento normale non ha ottenuto i finanziamenti cinesi. A occuparsi del restyling sarà comunque la Cina con il colosso China Road and Bridge Corporation. Intanto, in Ghana, il gigante minerario australiano Rio Tinto e un consorzio statale cinese hanno raggiunto un accordo con il governo di Accra per realizzare un collegamento ferroviario tra la miniera di Simandou e il porto di Morébaya, sull’Atlantico. 

Alla ricerca di una nuova base militare

Uno rapporto di AidData fa luce sull’espansione cinese nei porti africani. Da tempo si rincorrono voci riguardo alla possibile apertura di una nuova base militare cinese all’estero sul genere di Gibuti. La società di ricerca americana ha scandagliato 123 progetti portuali finanziati dalla Cina in 46 paesi, per un valore complessivo di 29,9 dollari miliardi. Tra i possibili candidati africani compaiono il porto di Nouakchott in Mauritania, lo scalo di Freetown in Sierra Leone, Nacala in Mozambico, Kribi in Camerun, Bata nella Guinea Equatoriale e Caio in Angola. A renderli mete papabili – secondo lo studio – l’ammontare dell’investimento e la posizione strategica, sulla costa occidentale, con affaccio sull’Atlantico e proiezione verso gli Stati Uniti. 

Sono ancora solo speculazioni. Molto più concreta è invece la penetrazione in Africa del gigante della difesa cinese Norinco, che alcune settimane fa ha aperto un ufficio vendite nella capitale senegalese, Dakar. Obiettivo: sfruttare l’arretramento francese e la distrazione russa per soddisfare la crescente domanda di attrezzature militari nella regione, in particolare in Mali, Niger, Burkina Faso e Guinea, paesi che hanno recentemente visto cambiamenti di potere attraverso colpi di stato. 

Da Nairobi appelli per una riforma del sistema finanziario globale “obsoleto e ingiusto”

Intervenendo ieri al vertice sul clima di Nairobi, il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, si è unito ai leader africani nel chiedere una riforma urgente del sistema finanziario globale “obsoleto e ingiusto”. “Le strutture di governance globale riflettono il mondo com’era, non com’è”, ha affermato Guterres, definendo il sistema finanziario internazionale “obsoleto, ingiusto e disfunzionale”. L’energia rinnovabile potrebbe essere il miracolo africano, ma dobbiamo realizzarlo”, ha aggiunto, attirando l’attenzione sulle disparità di accesso dell’Africa alle opportunità economiche, anche se il continente sopporta il peso maggiore dei disastri legati al clima nonostante contribuisca in misura minima al riscaldamento globale. La conferenza di tre giorni ha attirato capi di Stato e di governo e i leader industriali provenienti da tutta l’Africa, nonché l’inviato Usa per il clima, John Kerry, e la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che ha portato “l’offerta dell’Europa di essere vostra alleata alla Cop28”. La Cina – che è presente al summit con il ministro dell’Ambiente Huang Runqiu – sono diversi anni che ha ridirezionato i propri capitali dalle infrastrutture di trasporto al settore energetico. Secondo un rapporto della IEA, nel periodo 2010-2020, il 56% dei progetti energetici cinesi ha interessato fonti rinnovabili, per una spesa di 13 miliardi di dollari in 37 paesi africani. Nel comparto idroelettrico, gli investimenti cinesi hanno rappresentato il 60% dei progetti nella regione sub-sahariana. È un trend incoraggiante che tuttavia restituisce un quadro solo parziale del complicato processo di transizione verde. Non per nulla tra gli accordi siglati a Johannesburg da Xi rientrano diversi protocolli d’intesa con le principali società elettriche cinesi che hanno come scopo rinnovare e potenziare le centrali a carbone sudafricane.  

Tsai Ing-wen in visita a eSwatini

Nella giornata di martedì la presidente taiwanese Tsai Ing-wen è partita alla volta di eSwatini, uno degli ultimi tredici paesi a riconoscere ufficialmente il governo di Taipei. Definendo l’ultima monarchia africana un “vecchio amico di famiglia”, Tsai ha affermato che la sua visita – in occasione dei 55 anni dall’indipendenza – ha due obiettivi: celebrare “l’amicizia tra i due alleati” e “continuare a promuovere la cooperazione sostenibile”. Tre sono i memorandum d’intesa siglati. Taipei si è impegnata a elargire 1 milione di dollari per un fondo volto a sostenere l’imprenditoria femminile. Dal 1986 il re Mswati III ha visitato l’isola 18 volte, un’amicizia che le autorità taiwanesi hanno ricompensato mandando al sovrano malato antivirali in piena pandemia. 

A cura di Alessandra Colarizi

Per chi volesse una panoramica d’insieme,  è uscito in libreria “Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro” (L’Asino d’Oro, 14,00 euro). Partendo dal racconto dei primi contatti nella storia, il testo cerca di restituire un’immagine a tutto tondo dei rapporti sino-africani, superando la dimensione puramente economica. Mentre la narrazione dei mass media ci bombarda quasi ogni giorno con le statistiche del debito africano e degli investimenti cinesi, “Africa rossa” cerca di riportare al centro della narrazione gli scambi politici e socio-culturali tra i rispettivi popoli.