Shenzhen. La città simbolo della Cina di Deng

In by Simone

Dimenticate la fabbrica del mondo. Quella Shenzhen, così meravigliosamente descritta dall’omonima grafic novel di Guy Delisle appartiene al passato. Dimenticate “gli odori, la folla, la sporcizia, il grigiore ovunque”. Anzi, tenete in mente la folla. E dimenticate il resto. Reportage da Shenzhen, la città simbolo del miracolo economico cinese.
Si atterra nel futuristico terminal 3, progettato da Fuksas. Luci calde, spazi ampi. Tutto di un bianco così scintillante che fa quasi dimenticare l’esistenza di un fuori. Si attraversano boutique: le ultime collezioni di Armani, Zegna, Furla, Montblanc, Ferragamo, Shanghai Tang, Versace e simili sono incastonate in negozi dalle forme irregolari. Danno immediatamente l’idea della capacità di spesa di chi passa, per lavoro o piacere, in questo non luogo. Si prende la metro, una delle più care dell’intera Cina. Ecco la folla. I vagoni, moderni e funzionali, sono pieni. Chi non dorme, è connesso. Con gli smartphone, si gioca, si telefona, si legge. Non c’è quasi nessuno che dialoga con il suo vicino, ma non è questo a colpirci. Sono tutti giovani, e vestiti bene. Ognuno a proprio gusto, si intende.

Appena arrivato, sei un abitante di Shenzhen”. Siamo ancora in metro e già ci viene esposto uno dei “concetti” simbolo della città. Un semplice slogan, che inizialmente ci fa sorridere. Ma che poi ci rimane in testa. Una domanda che ci martella mentre, mall dopo mall, ci inoltriamo nella città attraversando una serie di non luoghi. Ma chi sono gli abitanti di Shenzhen? Abbagliati dalle pubblicità e dai neon dei grattacieli; stupiti dall’efficienza dei servizi e dall’ordine che regna nelle strade stavamo dimenticando la breve storia di questa città. Motivo in più per osservarla con curiosità e ammirazione.

La città di Shenzhen non ha ancora compiuto 35 anni e, a prima vista, nulla ci riporta alla millenaria tradizione cinese. Siamo di fronte a quel sogno cinese che, propaganda a parte, qui è già divenuto realtà. Qui Deng Xiaoping, l’architetto della nuova Cina, ha scelto di sperimentare il famoso socialismo con caratteristiche cinesi. La zona economica speciale di Shenzhen fu ufficialmente inaugurata nel 1980. Significava portare nella Repubblica popolare, la cui esperienza maoista si era appena conclusa con la morte del grande timoniere, investimenti stranieri. L’idea era quella di far confluire in Cina un po’ del denaro che girava a Hong Kong. Qui, dove la manodopera costava pochissimo, cominciarono a aprire fabbriche di scarpe, giocattoli, elettronica e chi più ne ha più ne metta. Tutti prodotti commissionati dall’Occidente e ad esso destinati.

Trent’anni in Cina
Le politiche di “riforme e apertura” qui sperimentate, si estesero in fretta a altre parti della Repubblica popolare. All’epoca fu un azzardo ma i risultati, oggi, sono sotto gli occhi di tutti. È il miracolo economico cinese: da paese del terzo mondo a seconda economia mondiale in soli trent’anni. Sono gli stessi dati della Banca mondiale a raccontarcelo: 600 milioni di persone uscite dalla povertà e una società che si è trasformata da rurale a urbana (il sorpasso è avvenuto nel 2011 e l’ultimo documento del governo si pone l’obbiettivo del 60 per cento della popolazione residente in città entro il 2020).

Un paese che attualmente prova ad affrontare a viso aperto la cosiddetta trappola del reddito medio, ovvero quel momento in cui la crescita a due cifre – di cui si è beneficiato grazie a un basso costo del lavoro e al trasferimento di know how e tecnologie –  scompare. Oggi la scommessa è trasformare la Cina da fabbrica del mondo a società di servizi. Significa aumentare il reddito individuale affinché la classe media possa spendere e dare vita a quel gigantesco mercato interno di cui la leadership ha bisogno per mantenersi al potere e a cui le aziende di tutto il mondo anelano per mantenersi in vita. È la scommessa che Shenzhen considera ormai vinta, con buona pace dei detrattori di Deng Xiaoping.

Arricchirsi è glorioso
I politici cinesi spesso comunicano attraverso simboli. Non è quindi da considerarsi un caso che Xi Jinping, appena confermato presidente, si è precipitato nelle regioni meridionali ripercorrendo le tappe di quello che è passato alla storia come il “viaggio al sud” dell’architetto delle riforme economiche e della modernizzazione socialista della Cina. Fu il momento in cui Deng lanciò lo slogan, impensabile solo qualche anno prima, “arricchirsi è glorioso”. Era il 1992, il Partito doveva riconquistare il suo popolo mostrando di volersi liberare di una burocrazia corrotta e cancellando al più presto il ricordo del sangue di piazza Tian’anmen. “Lasciate che alcuni si arricchiscano prima” consigliava quello che già trent’anni prima aveva teorizzato “non importa se il gatto è bianco o nero; è un buon gatto fintanto che prende i topi”.

Ottenne un’incredibile copertura mediatica che accelerò la strada delle riforme. In dodici anni Shenzhen era già passata da essere “un villaggio di pescatori” di 30mila anime a una città da un milione di residenti. Ma non era abbastanza. Nel 1996 completò la costruzione di quello che all’epoca era il quarto grattacelo più alto del mondo: la torre Shun Hing, 69 piani e 384 metri di altezza. Ed era solo l’inizio. Oggi Shenzhen conta 15 milioni di abitanti. Dei 168 miliardari cinesi (dati Forbes), 16 vivono in questa città. E qui sono nate quelle che oggi sono multinazionali pronte a conquistare il mondo: Huawei, Tencent e Vanke, solo per citarne alcune. Nel frattempo la città ha raggiunto quota 350 grattaceli, l’ultimo, 660 metri, verrà ultimato nel 2016 e pare sarà il secondo più alto del mondo.

La dicotomia campagna/città
La notte, dalla cima di una collina o dal piano più alto di uno di questi palazzi, Shenzhen appare come una distesa di neon colorati senza soluzione di continuità. Solo un occhio attento si accorge che quella distesa è costellata di aree più buie. Sono quartieri di palazzi a sei o nove piani, costruiti alla bella e meglio senza ascensore. Ecco i cosiddetti “villaggi urbani”: 240 isole che spezzano la narrativa della nuova Cina, dando la misura del progresso compiuto e del passato cancellato. Sono le comuni agricole volute da Mao e costruite secondo il concetto all’ora in auge dei "i villaggi che accerchiano la città”. Ma adesso che la città si è estesa a dismisura è la metropoli che, letteralmente, accerchia i villaggi. Legalmente sono scomparsi nel 1992, ma di fatto resistono.

Per almeno 12 anni sono stati soggetti all’amministrazione rurale, che in Cina prevede diritti e doveri differenti da quella urbana. Nelle campagne, ad esempio, esiste la proprietà collettiva e l’appezzamento di terra si eredita di padre in figlio. Niente a che vedere con quello che succede in città, dove l’usufrutto è possibile per 70 anni allo scadere dei quali la terra torna allo Stato. Sulla carta, Shenzhen è stata la prima metropoli cinese a eliminare i “villaggi urbani”, ma di fatto essi continuano a esistere e a sfruttare una zona grigia che produce, allo stesso tempo, illegalità e ricchezza.

L’amministrazione della nuova città li ha inizialmente ignorati pensando ingenuamente che avrebbero continuato a rifornire la città di frutta e verdura fino a quando non sarebbero stati naturalmente riassorbiti da essa. Ma i “villani”, che a quel punto erano privati dei diritti base riservati ai“cittadini” (istruzione e assistenza sanitaria tanto per citarne un paio) hanno fatto della loro peculiarità un punto di forza. Loro, al contrario dei “cittadini”, erano proprietari di case e terre.

L’esplosione della classe media
Rapidamente e senza troppa attenzione alla sicurezza e all’estetica, le case a due piani sono cresciute in altezza, gli spazi si sono ristretti e i campi sono stati affittati alle fabbriche. Qui si sono riversati milioni di migranti attirati da affitti molto più bassi che nel resto della città e dalla zona d’ombra che gli permetteva di vivere e lavorare senza avere un vero e proprio permesso di residenza. Tutta gente che aveva bisogno di servizi: taxi, parrucchieri, trattorie e negozietti hanno formato una sorta di cuscinetto attorno a quei “villaggi urbani” che non solo erano sempre più difficile da abbattere, ma ormai producevano anche ricchezza.

La storia urbanistica di Shenzhen, da allora, è stata anche la storia della distruzione e della trasformazione dei “villaggi urbani”. Quando nel 1992 il governo decise di eliminare sulla carta i villaggi urbani, una scelta che all’epoca definì “non popolare, ma necessaria” il 15 per cento della terra rimase sotto il controllo dei comitati di villaggio che si trasformarono a loro volta in società per azioni. È così che dal giorno alla notte gli ultimi della scala sociale si sono trasformati in una classe media benestante. Non devono più alzarsi alle tre del mattino per andare a lavorare. Oggi, stando alle loro parole, “non devono far altro che giocare a mahjong e in borsa”. E viaggiano. Vanno in Europa e in Giappone per fare shopping. Nell’arco di trent’anni sono passati dallo status di contadini a quello di uomini d’affari. Anche loro sono esempi viventi del sogno cinese.

Quant’è bella giovinezza…
La storia non ricorda un’area metropolitana che si è sviluppata tanto in fretta quanto quella di Shenzhen. Attualmente l’età media dei suoi abitanti non raggiunge i 29 anni. Ovviamente, quasi nessuno è originario di Shenzhen. I locali si divertono a indovinare le regioni d’origine dall’accento dell’interlocutore: “appena arrivato, sei un abitante di Shenzhen”. Ecco che lo slogan governativo acquista un senso più profondo. Il 95 per cento della popolazione fa parte dell’esercito dei migranti che si recano in città in cerca di un futuro migliore. Sono ambiziosi e non sopportano l’idea di tornare a casa a seguito di un fallimento. Diversi sondaggi hanno indicato che lo scopo primario di chi si trasferisce a Shenzhen è arricchirsi. E ci stanno riuscendo.

Nel 2013 il pil pro capite è stato di oltre 12mila euro. Si tratta della quinta città più ricca della Cina. Gli stipendi dell’area metropolitana sono cresciuti costantemente. A febbraio 2014 lo stipendio minimo mensile era di 210 euro e il governo prevede una crescita del 13 per cento all’anno. I campi arati sono rimasti solo nella toponomastica dei quartieri; i centri benessere nascono come funghi; le fabbriche, ormai spostate in periferia, vengono riqualificate in poli culturali dove è incoraggiata l’innovazione. Certo, è una città diffusa. Non ha centro storico né vestigia del passato. Anzi, non è del tutto vero. C’è un nucleo originario di Shenzhen. Quello visitato da Deng Xiaoping nel 1992. Qui un maxi cartellone (non uno schermo) lo commemora. La foto storica dell’architetto della nuova Cina e uno slogan: “Ancora un secolo sulla linea politica del Partito. Perseverando, senza vacillare”. La città è giovane, non è neppure a metà del cammino.

[Scritto per Pagina99we; la foto di copertina è di Tania Di Muzio]