Indonesia – La guerra dei salari

In Uncategorized by Simone

Il salario minimo copre soltanto il 64% delle spese per un lavoratore. A Giacarta sono stati concessi aumenti del 15% e non basta. Ma il movimento di protesta è ancora disorganizzato. Intervista a Benny Hari Juliawan, ricercatore alla Sanata Dharma University di Yogyakarta.
Lo scorso 16 febbraio centinaia di poliziotti presidiavano il municipio di Giacarta in attesa di uno sciopero per chiedere l’aumento dei salari minimi. Per gli attivisti e i sindacalisti le concessioni dell’amministrazione capitolina indonesiana erano ancora insufficienti se paragonate agli aumenti del 20 o addirittura del 30 per cento cui si è giunti a Bekasi.

A gennaio in questo centro industriale nella provincia di West Java, dove hanno sede i fornitori di diverse grandi multinazionali soprattutto coreane e giapponesi, erano scesi in piazza a migliaia bloccando l’autostrada Jakarta Cikarang e il flusso di merci e materie prime.

La protesta contestava il ricorso vinto dall’Apindo, la Confindustria locale, contro gli aumenti ai salari minimi concessi dal governo regionale, a detta degli imprenditori senza consultare le parti. Risultato dei blocchi e delle manifestazioni è stato un aumento – condiviso da imprenditori e governo centrale – superiore al 15 per cento chiesto dai lavoratori, quattro volte il tasso d’inflazione del 3,7 per cento.

Una decisione che ha fermato il dilagare delle manifestazioni. “Se paragonati con le Filippine, la Cina, la Thailandia e la Malaysia, i salari indonesiani sono tra più bassi della regione”, ci ha spiegato Benny Hari Juliawan, ricercatore alla Sanata Dharma University di Yogyakarta. “Gli aumenti continuano a non reggere il passo con l’inflazione e le carenze nel sistema del welfare costringono i lavoratori a dover contare quasi esclusivamente sui loro stipendi”.

Nel 2010 il prodotto interno lordo indonesiano è cresciuto del 6,1 per cento, superando l’obiettivo fissato dal governo al 5,8 per cento. Giacarta è inoltre riuscita a ridurre il tasso di disoccupazione dal 9,1 al 7,1 per cento. E a fine gennaio, come già un mese prima aveva fatto Fitch, l’agenzia Moody’s ha aumentato il rating indonesiano per la prima volta dalla crisi finanziaria del 1997, confermando un outlook stabile.

In questo scenario il movimento dei lavoratori ha ripreso forza. Secondo uno studio del Centre for Social Studies Akatiga, il salario minimo copre soltanto il 64 per cento delle spese per un lavoratore, pari a 1,4 milioni di rupie al mese (168 dollari circa).

Una situazione riconosciuta dal ministro del Commercio Gita Wirjawan che tuttavia, criticato dagli imprenditori durante una conferenza di investitori, ha corretto un po’ il tiro e ha rilanciato il tema della riforma delle leggi sul lavoro paventando rischi per gli investimenti nel caso le proteste fossero continuate.

Lo stesso presidente Susilo Bambang Yudhoyono all’inizio di febbraio ammetteva che “i salari minimi dovevano riflettere un senso di giustizia” e “crescere al ritmo dello sviluppo economico”. Il capo dello Stato ha inoltre esortato amministratori locali, imprenditori e sindacati a collaborare per risolvere le dispute.

Con il collasso del regime di Suharto nel 1998 il governo ha emanato una serie di leggi che hanno aperto alla libertà di associazione per i lavoratori e hanno depenalizzato le proteste”, ci spiega ancora Juliawan. “Tuttavia queste misure non si sono tradotte in un miglioramento del welfare o in una rappresentanza politica. La disoccupazione cronica e il surplus di forza lavoro sono il corollario delle politiche per tenere i salari bassi e attrarre investimenti”.

Un movimento organizzato”, aggiunge però il ricercatore, “è ancora ai margini e non riesce veramente a influenzare la politica. In assenza di un canale diretto con la politica, gli scioperi e le manifestazioni sono diventate l’unico mezzo per rapportarsi con lo Stato. Le proteste di Bakasi ne sono una prova. Non soltanto sono state uno strumento per fare pressione sull’Apindo, ma hanno portato le rivendicazioni del mondo del lavoro all’attenzione della stampa e dei mezzi di informazione in generale , aprendo una discussione su quanto sta accadendo”.

[Scritto per Rassegna.it; Foto credits: asiancorrespondent.com]