Xinjiang/ La rivolta, i media e i complotti

In by Simone

I volti rigati di sangue, le lacrime e la fuga di una donna con un bambino in braccio, mentre sullo sfondo infuriano gli scontri. E’ probabile che queste istantanee diventeranno le nuove icone del nazionalismo cinese: sono i volti e le emozioni delle immagini ufficiali trasmesse dalla CCTV, la televisione di Stato cinese, sulla rivolta scoppiata a Urumqi, capitale dello Xinjiang, la regione del nord ovest cinese a maggioranza musulmana.

Il governo non ha avuto paura di mostrare i video, forse perché a senso unico: folle di uighuri a lanciare pietre, esercito popolare a fronteggiarle, fuochi e macchine bruciate e tanti, tutti cinesi han, a scappare o per terra, feriti, colpiti dalla brutalità uighura. E’ la versione ufficiale cinese: rivolta etnica contro la componente han, la maggioritaria in Cina, da parte degli uighuri. Una rivolta per niente improvvisata: alla cricca del Dalai Lama per quanto riguarda il Tibet, la Cina propone la cricca del Congresso mondiale uighuro per quanto riguarda i mandanti dei problemi che nascono nello Xinjiang. Per Pechino infatti non ci sono dubbi: si tratta di una rivolta meditata e orchestrata dagli indipendentisti uighuri che vivono all’estero. Le immagini lo testimonierebbero senza ombra di dubbio.

Il problema, al solito in Cina, è che a un giorno di distanza, le informazioni, anche quelle ufficiali, sono frammentarie: nella notte cinese che segue a un giorno di scontri, non si conosce ancora l’etnia della maggioranza delle vittime. Proprio i mezzi di informazione alternativi, i blog, Twitter, ad esempio, così controllati dalle autorità, paradossalmente nelle settimane precedenti avevano trasmesso un’atmosfera strana, in una Cina che appare percorsa da segnali di insofferenza nei confronti di molte decisioni governative. E proprio dalla blogosfera era partito l’episodio che ha portato alla convocazione della manifestazione di domenica a Urumqi, sfociata nei violenti scontri. Su un blog, alcuni cinesi han avevano fatto circolare la notizia secondo la quale due operai uighuri della fabbrica di giocattoli Xuri Toy Factory, nel Guandong, avrebbero violentato due ragazze cinesi. Dal virtuale al reale in poco tempo: nella fabbrica sarebbero scoppiati violenti scontri e alla fine due operai uighuri sarebbero rimasti uccisi. Una notizia riportata brevemente nei notiziari locali e dai media on line, di cui forse si è ignorata la potenzialità sociale.

E se il governo cinese è parso un po’ stupito dalla rivolta, come accadde l’anno scorso in Tibet, la stretta sui media è stata più immediata del solito, ma non sufficiente, perché nelle prime ore della mattinata di ieri si poteva accedere ad alcune immagini che hanno posto dubbi sulla versione ufficiale delle autorità cinesi. Su Twitter, prima che venisse bloccato in giornata, è trapelato qualcosa: uno studente americano ha dato prima di tutti i media del mondo la notizia di una città assediata. Poi qualche foto, alcuni video. Fuori dalla Cina si possono ancora vedere, nel continente cinese non più. E anche il sistema dei proxy, il modo consueto con il quale arginare la censura cinese, vacilla. Dei video in cui si vedrebbe la manifestazione pacifica, attaccata dall’Esercito Popolare, in Cina non v’è traccia sul web.
Anche perché da ieri pare che Urumqi sia senza connessione internet: scollegati dal resto mondo. Non è un caso dunque se le fonti uighure si facciano sentire soprattutto dall’estero: ai media stranieri a Pechino è arrivata ieri una comunicazione di una dissidente uighura Rebiya Kadeer (emigrata negli Usa, dopo sei anni di carcere), tramite la Uyghur American Association (Uaa). Secondo l’associazione, la polizia avrebbe sparato su una folla pacifica, dando vita alla sequela di scontri che hanno messo a ferro e fuoco la città.

Dallo Xinjiang, solo fonti governative: se il governo ha vacillato, il resto del paese deve sapere il meno possibile. Del resto Urumqi dista oltre 3mila chilometri dalla capitale, che prosegue il suo tran tran di lavori e scarso interesse per quanto accade fuori dai suoi anelli sempre più larghi. Fanfou invece, il Twitter cinese, funziona, si apre, ma non dà alcun risultato corrispondente alla realtà di ieri. Ricercando «Urumqi» o «Xinjiang» si ottengono solo foto e notizie turistiche.

[Pubblicato da Il Manifesto il 7 luglio 2009]