Xinjiang/ Dallo scontro in fabbrica, alla rivolta etnica

In by Simone

– Il 26 giugno uno scontro in fabbrica nel Guandong, a seguito di una voce diffusasi on line, porta alla morte di due uiguri. La comunità uigura si mobilita e organizza una manifestazione per domenica scorsa a Urumqi, per chiedere parità di trattamento. Dalla manifestazione agli scontri, e il Xinjiang rischia di diventare una zona pericolosamente calda per il Governo di Pechino –

Da ieri sera è coprifuoco: lo Xinjiang brucia, sotto i colpi di una rivolta che radicalizza lo scontro etnico tra popolazione cinese musulmana e l’etnia dominante, quella han. Una notte di scontri, non ancora terminati. Le notizie che giungono da Urumqi, capoluogo dello Xinjiang, la regione nord occidentale cinese a maggioranza musulmana, sono contraddittorie. La scure del governo sui mezzi di informazione inoltre, aumenta di ora in ora, rasando video e testimonianze, bloccando Twitter, lo strumento grazie al quale in molti hanno potuto vedere le foto degli scontri notturni e ogni fonte che non sia governativa. La Cctv ha mostrato video in cui si vedono cinesi feriti e uighuri a lanciare pietre e incendiare macchine: fonti governative, le uniche disponibili.

156 morti, più di 800 feriti e centinaia di arresti è l’apocalittico bilancio, momentaneo, dei disordini che sono seguiti ad una manifestazione svoltasi domenica per le strade di Urumqi, la città più distante dal mare del mondo. Le cifre sono state fornite alla stampa locale dai dirigenti del partito comunista, che hanno sottolineato le grandi proporzioni della rivolta. Le fonti hanno aggiunto inoltre, che il bilancio delle vittime potrebbe ancora crescere. Di sicuro c’è che il capoluogo xinjianese è stato teatro di scontri che hanno visto la durissima risposta dell’esercito cinese che, secondo molti testimoni, avrebbe sparato sulla folla.

La causa della manifestazione è da ricercare in un fatto ben preciso occorso alcune settimane fa: in una fabbrica di giocattoli nel Guandong, la Xuri Toy Factory, alcuni cinesi avevano accusato due uighuri di avere violentato una ragazza cinese. La notizia era apparsa on line ed era divampata in uno scontro tra operai cinesi e uighuri. Due abitanti originari dello Xinjiang erano morti in seguito ai disordini. Per questo motivo per domenica scorsa era stata organizzata una manifestazione di solidarietà, terminata in nuove violenze. Come sempre accade in Cina, è assai difficile comprendere la reale entità di quanto accaduto. Il clima a Urumqi nella giornata di ieri, non è sembrato scendere di tensione, tra proclami del governo, accuse agli indipendentisti e caccia agli uomini più in vista del movimento uighuro. Pechino, inoltre, non ha ancora rilasciato dati circa l’etnia delle vittime, ma le notizie diffuse dalle autorità locali e dalla stampa governativa, indicano che sono almeno in larga parte civili cinesi, attaccati dai dimostranti uighuri. L’agenzia Nuova Cina ha rilasciato alcuni dati ulteriori: 261 veicoli sono stati dati alle fiamme e 203 negozi e 14 case private sono stati attaccati nel corso del disordini. Il capo della polizia regionale, Liu Yaohua, ha affermato che le forze di sicurezza hanno «rafforzato la vigilanza nel centro di Urumqi e in alcuni luoghi chiave come le centrali energetiche e le stazioni della televisione».

Secondo fonti uighure, i morti sarebbero stati provocati invece dall’attacco della polizia contro una dimostrazione «pacifica». Lo ha affermato in un comunicato inviato ai mezzi d’informazione stranieri a Pechino, la Uyghur American Association (Uaa), il gruppo fondato negli Usa dalla dissidente uighura Rebiya Kadeer (emigrata negli Usa, dopo sei anni di carcere). Secondo la Uaa, che cita «persone che hanno preso parte alla manifestazione», tra le mille e le tremila persone avevano risposto all’appello di un’associazione di studenti uighuri per protestare contro l’ assassinio di due appartenenti alla stessa etnia avvenuto il 26 giugno nel Guandong. I testimoni hanno sostenuto che «un numero sconosciuto di uighuri sono stati presi a bersaglio e uccisi dalle autorità cinesi».

Lo Xinjang, da anni sotto stretto controllo militare e luogo di emigrazione forzata di cinesi han, è da sempre un punto debole nello scacchiere nazionale di Pechino: fortemente indipendentista, è stato più volte luogo di attentati contro le forze di polizia cinesi presenti sul territorio. Una regione fondamentale, per risorse e confini (con Kazakhstan, Kirghizistan, Tagikistan, Afghanistan, Pakistan ed India) che via via, vede la popolazione musulmana divenire minoritaria, rispetto ai cinesi, e che male accetta le decisioni del governo centrale di Pechino, spesso considerate ottuse e chiaramente contrarie alle tradizioni uighure. E’ il caso della distruzione dell’antico bazar di Kashgar, antica città, capitale della cultura uighura, già palcoscenico di attentati lo scorso anno prima delle Olimpiadi. A Kashgar molte famiglie musulmane hanno dovuto abbandonare le loro vecchie abitazioni, per trasferirsi in periferia: per gli uighuri, l’ennesimo affronto.

[Pubblicato su Liberazione il 7 luglio 2009]