Xinjiang/ Il rientro di Hu Jintao e il pugno duro del governo

In by Simone

Mentre il sindaco di Urumqi, Jerla Isamudin, prova a rassicurare tutti circa la tranquillità apparente della città («sotto la saggia direzione del Partito e del governo, la situazione è stata riportata sotto controllo», ha dichiarato) gli eventi sembrano prendere una piega decisamente diversa. In primo luogo il rientro in Cina, in tutta fretta, del presidente Hu Jintao, che ha abbandonato l’Italia e la possibilità di guidare la delegazione cinese ai lavori del g8, dimostra come la situazione sia ancora potenzialmente ad alto rischio (Al Jazeera ha definito «insolito», il brusco ritorno a Pechino del premier cinese). Urgono, soprattutto, risposte politiche alla strana impreparazione del governo cinese di fronte ai fatti di domenica scorsa. Come non bastasse la percezione di un governo in balia degli eventi, è giunta la notizia portata in conferenza stampa dal segretario del Partito Comunista di Urumqi, secondo il quale pioveranno raffiche di condanne capitali nei confronti degli autori delle violenze. Il bilancio ufficiale degli arrestati è di oltre 1400 persone: le pene di morte alzerebbero, e di molto, il conteggio finale delle vittime.

E anche in questo caso l’ufficialità delle notizie latita: i morti sarebbe 156, ma rimangono molti dubbi sia sulla veridicità del conteggio, sia sull’etnia di appartenenza delle persone scomparse. Gli uighuri hanno fatto sapere di avere contato almeno 400 morti, i cinesi smentiscono, ma la chiarezza è ancora lontana.
Sui fatti si è chiusa una severa censura dei mezzi di comunicazione: oltre a Twitter e Youtube anche Facebook sembra bloccato, mentre i quotidiani del Xinjiang non sono disponibili on line e risulta complicato anche trovarli nelle tante edicole pechinesi. Il massacro di Urumqi, ormai passato agli annali come scontro etnico, riserva alcuni punti misteriosi ancora oggi, quattro giorni dopo l’inizio delle violenze. Innanzitutto il fattore scatenante non è stato ancora sufficientemente chiarito: la storia secondo la quale gli scontri nella fabbrica del Guandong tra uighuri e cantonesi, sarebbero scoppiati per una presunta violenza nei confronti di una ragazza han faticano a trovare riscontro. Più probabile una diatriba che nasce all’interno di una guerra tra poveri, tra lavoratori migranti a basso costo e ancor più bassi salari. La crisi, per quanto il Partito si sforzi di negarlo, comincia a farsi sentire in un paese abituato a crescere a due cifre e improvvisamente alle prese con una massa di disoccupati altissima. Non è un caso se le violenze di Urumqi arrivano dopo un anno in cui si sono contati migliaia di scontri tra popolazione e polizia, a causa di comportamenti sopra le righe da parte di autorità sempre più arroganti e potenti.

Infine rimane ancora la clamorosa mancanza di informazioni circa quanto realmente successo domenica scorsa nelle vie di Urumqi. Gli uighuri non hanno negato violenze commesse contro civili han, come hanno dimostrato le immagini trasmesse dalla Cctv, la tv di stato cinese, ma sottolineano il fatto che tali violenze sarebbero iniziate solo dopo gli spari da parte dell’esercito su un corteo pacifico.

E che la situazione a Urumqi sia distante dall’essere tranquilla, lo ha testimoniato un giornalista dell’agenzia France Presse (Afp) che ha raccontato di aver assistito, attirato dalle urla, al violento pestaggio di un uomo a terra, preso a calci e pugni da parte di una ventina di han armati anche di bastoni in un quartiere attiguo alla centrale piazza del Popolo. La polizia sarebbe intervenuta disperdendo la folla, ma non avrebbe proceduto ad alcun arresto. Un testimone, un han, ha detto al giornalista dell’Afp che la persona attaccata è di etnia uighura. Il giornalista ha riportato anche un altro episodio: un gruppo di han avrebbe cominciato a inseguire minacciosamente tre uighuri, finendo per raggiungerne uno. Pare sia partita una rapida colluttazione, mentre una piccola folla giunta sul luogo gridava «picchiate, picchiate!».

L’armonia così cara a Hu Jintao è in bilico: c’è da giurarci che il presidente cinese, schivo ma determinato, e già rodato dalla sua esperienza in Tibet nel 1989, quando scoppiarono i disordini a Lhasa, saprà prendere in mano la situazione, una volta posato il piede giù dall’areo, a Pechino, in Cina, casa sua.