A tre giorni dal massacro nella città di Urumqi, le informazioni sono ancora confuse. I media ufficiali parlano di 156 vittime e più di mille feriti, per lo più cinesi han. Gli uighur dichiarano che i morti sono molti di più e sono fermamente convinti che il 90 per cento delle vittime appartiene alla loro etnia. Gli arrestati a seguito delle violenze scoppiate domenica scorsa sono 1434.
Questi dati sono difficili da controllare perché il servizio di telecomunicazioni della regione è stato completamente interrotto e così i siti dei giornali locali come il Xinjiang Daily, il Xinjiang Metropolis Daily, il Xinjiang Legal Daily, e il Morning Post non sono più consultabili online.
La forza militare che la Repubblica popolare cinese ha messo in campo è composta da 20 mila unità (dati forniti da Xinhua) ma le uniche immagini disponibili in Cina, quelle trasmesse dalla televisione di stato Cctv, sono quelle di ragazze han imbrattate di sangue, di donne di fronte ai propri negozi distrutti che piangono e chiedono vendetta. “E’ probabile che queste istantanee diventeranno le nuove icone del nazionalismo cinese” scriveva ieri Simone Pieranni sulle pagine del Manifesto, e così è stato.
Nonostante il coprifuoco annunciato in televisione da Wang Lequan, il capo del Partito comunista dello Xinjiang, questa mattina centinaia di cinesi han si sono riversati nelle strade di Urumqi armati di mazze e maceti. Hanno distrutto ristoranti, negozi e bancarelle gestiti da musulmani, convinti la vendetta fosse l’unico mezzo per tutelarsi da una nuova ondata di violenza. Contemporaneamente gli uighur manifestavano per chiedere ragguagli sui 1400 arresti. Le immagini raccolte per il Guardian dalla reporter Tania Branigan descrivono una marcia di protesta composta soprattutto da donne, la testa coperta dal velo, che tengono stretti a loro due o tre bambini e che accusano i soldati di aver portato via tutti gli uomini. I due cortei si sono incontrati. La polizia nel mezzo urlava alla folla di mantenere la calma e lanciava i lacrimogeni. Li Zhi, il capo della sezione cittadina del Partito è salito sul tetto del palazzo della polizia e con un megafono ha invitato i manifestanti a tornare a casa. Troppo tardi, la folla di han inferociti è entrata in un quartiere musulmano. Stando al racconto della Branigan, a questo punto lei e altri giornalisti portati via dal luogo degli scontri “per garantire la loro sicurezza”. L’agenzia Ap, inoltre, ha segnalato che a Kashgar, un tempo snodo fondamentale della via della seta e oggi estrema propaggine occidentale del territorio cinese, più di 200 persone avrebbero tentato di radunarsi attorno alla moschea di Id Kah, la più grande della città e dell’intera Cina, ma sarebbero stati disperse senza scontri dalla polizia.
Le notizie sono poche, ma la situazione non sembra calmarsi. Gli uighur sono sempre di meno e sempre più disperati. Fino agli anni Ottanta costituivano l’80 per cento della popolazione dello Xinjiang e oggi, grazie a un’abile politica governativa di immigrazione interna sono scesi a meno del 40 per cento. Proprio per questo è importante l’analisi del conflitto proposta da Evelyn Chan su China Elections & Governance, un sito frutto della collaborazione tra il Carter Center e l’Università Renmin di Pechino. La studiosa si avvale del paragone con le proteste in Tibet nel 2008 per teorizzare un nuovo livello di conflitto etnico che complica i rapporti di Pechino con le minoranze. La chiama “violenza orizzontale”: le minoranze non attaccano più l’autorità che rappresenta lo Stato; preferiscono obiettivi più facili, i civili han.
Invece di riflettere sui suoi interessanti consigli, le autorità cinesi si limitano a incolpare Rebiya Kadeer, la leader uighur in esilio, di aver fomentato la rivolta. Lei, ai microfoni della Bbc, si dichiara del tutto estranea alle violenze e aggiunge: “Durante le rivolte tibetane, il Governo cinese ha accusato il Dalai Lama e adesso, che le rivolte sono in Xinjiang, accusa me.”
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[Pubblicato da L’altro, 8 luglio 2009]