Vietnam – Scoppia il dissenso nelle fabbriche

In by Simone

Molte multinazionali hanno trasferito la produzione dalla Cina. Ma nel 2011 le proteste sono raddoppiate. I lavoratori chiedono di adeguare i salari al tasso di inflazione più alto di tutta l’Asia: oltre il 17 per cento
Anno di scioperi in Vietnam, quello appena concluso. Le proteste sono raddoppiate e i lavoratori chiedono di adeguare i salari al tasso di inflazione più alto di tutta l’Asia: oltre il 17 per cento. Secondo i dati diffusi all’inizio del mese dal ministero del Lavoro gli scioperi nei primi 11 mesi del 2011 sono stati 857, superando anche il record di 762 raggiunto nel 2008 quando il costo della vita fece segnare un più 28 per cento.

Cifre allarmanti”, le ha definite il vice primo ministro Nguyen Thien Nhan. “Dobbiamo capire se si tratta di un fenomeno nuovo e se sia limitato soltanto ad alcune aree o diffuso a livello nazionale”. Il basso costo del lavoro ha permesso al Paese di attrarre gli imprenditori che hanno deciso di abbandonare la Cina meridionale, dove le proteste degli operai hanno spinto i governi locali ad alzare i salari minimi per garantire la stabilità sociale.

Un operaio vietnamita non qualificato, ha spiegato il Financial Times, arriva a guadagnare circa 75 euro al mese, contro i 250 di un suo omologo cinese. Attenti ai costi, fornitori taiwanesi e sudcoreani della Nike, e colossi dell’elettronica come la nipponica Canon o della tecnologia come Intel hanno pertanto deciso di delocalizzare sulle rive del Mekong dopo l’ingresso di Hanoi nell’Organizzazione mondiale del commercio cinque anni fa.

Nel solo 2010 gli investimenti esteri stranieri hanno toccato i 10 miliardi di dollari, ma nell’ultimo anno hanno subito un drastico calo. Già a giugno scorso Businessweek si concentrava sull’ondata di scioperi in tutto il Paese. In gran parte proteste non autorizzate che hanno spinto società come Minebea a preferire la Cambogia al Vietnam.

Gli scioperi sono un problema”, disse il portavoce dell’azienda giapponese di motori motivando la scelta di impiantare a Phnom Penh una fabbrica da 5mila operai. O ancora la thailandese Srithai Superware, produttrice di stoviglie e vasellame, che sospese l’espansione delle proprie attività nel sud del Paese per paura “dell’instabilità economica”.

Per il governo, la causa delle proteste è il mancato rispetto delle leggi sul lavoro. Come nota Roberto Tofani sull’Asia Times Online, le politiche dell’esecutivo non sono tuttavia esenti da critiche con i lavoratori alle prese con salari che non riescono a tenere il passo del carovita e con la frustrazione di chi percepisce il potenziale del Paese in mano a una ristretta cerchia di persone legate al Partito comunista al potere.

Gli scioperi spontanei nell’ultimo anno hanno interessato tra gli altri gli impianti della Panasonic e della Yamaha. Le società, soprattutto quelle alla ricerca di personale più qualificato – anche in questo caso primeggiano le multinazionali giapponesi dell’elettronica – sono state costrette ad alzare i salari in almeno quattro occasioni.

Lo stesso governo ad agosto ha quasi raddoppiato gli stipendi in alcune zone industriali chiave. Anche per evitare che le proteste si trasformino in una sfida sociale al Partito e alla sua cinghia di trasmissione tra i lavoratori, la Confederazione generale del lavoro, unico sindacato riconosciuto.

Paragonata al suo omologo cinese, quella All-China Federation of Trade Unions sotto accusa dopo l’ondata di proteste che ha interessato numerose società straniere lo scorso anno, l’organizzazione vietnamita non sembra tuttavia subire la pressione del governo affinché rappresenti realmente i lavoratori o prenda in mano la situazione.

Il rischio, ha detto al quotidiano della City Youngmo Yoon dell’ufficio Ilo di Hanoi, è che le manifestazioni possano diffondersi e prendere un carattere politico. Esattamente ciò di cui il governo ha paura.

[Pubblicato su rassegna.it] [Foto credit: anarkismo.net]