Zhu Weiqun, responsabile del Partito comunista cinese per le etnie e gli affari religiosi, avvisa Obama: «se il presidente Usa incontrerà il Dalai Lama (in visita negli Usa a fine mese ndr), minerà seriamente le relazioni politiche tra Stati Uniti e Cina». Tra i due paesi, ormai, siamo ormai agli avvisi preventivi: «ci opponiamo – ha ribadito Zhu – a qualunque tentativo di una forza straniera di interferire con le questioni interne cinesi usando come pretesto il leader spirituale tibetano». La stessa vecchia storia, verrebbe da dire, con le consuete parole chiare: dopo gli ultimi screzi, per gli Stati Uniti dalla Cina arrivano segnali evidenti, che invitano a riflettere sui rapporti tra le due potenze mondiali.
Che il periodo non sia dei migliori lo dice la breve, ma intensa, cronologia degli ultimi tempi. Il calcio d’inizio è toccato a un’azienda Usa, Google: attaccato da hackers cinesi, il gigante di Mountain View ha dimenticato gli accordi con il governo di Pechino, liberando i propri contenuti precedentemente sottoposti a censura, creando un caso di cui ha parlato tutto il mondo. Uno strappo ancora da ricucire: ad oggi Google in Cina funziona, ha perfino lanciato il nuovo servizio di mappe on line, disegnato sulle esigenze dei cinesi che tornano alla propria città di origine per il capodanno cinese che quest’anno, anno della tigre, cade piuttosto in là, il 14 febbraio, mentre Pechino appare invasa dai bus con la pubblicità del motore di ricerca made in Usa. Poi a buttare benzina sul fuoco, cinese, è toccato al discorso di Hillary Clinton sulla libertà di internet, con il chiaro riferimento alle manovre censorie del governo di Pechino. Altre frecciate che i cinesi non hanno propriamente apprezzato. Infine il recente scontro diplomatico sulla decisione della Casa Bianca di vendere armi a Taiwan (circa 6,4 miliardi di dollari), dando il via libera ad un progetto firmato niente meno che dal predecessore di Obama, George W. Bush: Cina ufficialmente indignata, con conseguente interruzione delle relazioni diplomatiche e sanzioni previste per le aziende che venderanno armi all’isola ribelle, ma rivendicata fin dal 1949, dalla Cina, come proprio territorio.
Ora tocca all’argomento più caldo e temuto alla vigilia dell’elezione di Obama, il Tibet. Negli animi cinesi, infatti, vigeva un assioma piuttosto semplice: meglio i conservatori dei democratici, giusto per non avere preoccupazioni in relazione al Tibet e ai diritti umani. Anche per questo l’elezione di Obama non ha sconvolto gli equilibri politici cinesi e venne letta con una cauta freddezza dalle parti di Pechino. Entusiasta lo fu giusto una minoranza, bollata come filo occidentale: ufficialmente l’elezione di Obama venne salutata tiepidamente dalla nomenklatura del partito comunista cinese.
Quello di ieri però è un avvertimento palese lanciato da Pechino, dopo che alcuni mesi fa, in segno di rispetto nei confronti della Cina, Obama aveva risposto con un diniego alla possibilità di incontrare il Dalai Lama, in visita negli Stati Uniti. Allora la Cina apprezzò il gesto, anzi la retorica nazionalista sottolineò il peso della Terra di Mezzo, perfino nelle valutazione di un democratico yankee.
Poi fu la volta della visita di Obama a Pechino, per quello che in molti osservatori definirono fidanzamento tra Usa e Cina e più specificamente tra Obama e Hu Jintao, presidente cinese. Un momento durato ben poco: appena pochi giorni dopo, i primi screzi, culminati con le accuse reciproche sul tema di internet e le secche accuse lanciate dalla Clinton in direzione della Cina. Infine la questione della vendita di armi a Taiwan, tanto più che proprio Obama, durante il suo soggiorno pechinese, aveva sottoscritto un comunicato congiunto proprio in relazione all’isola ribelle. L’avvertimento cinese arriva inoltre nel momento in cui si stanno concludendo nuovi incontri tra governo di Pechino ed esponenti tibetani. Le due posizioni, come ricordato dallo stesso Zhu, sono ancora distanti e nonostante i segnali ottimistici della vigilia, gli spiragli per un punto di incontro, sembrano scarsi.
Quello che conta, è un aumento dell’anti-americanismo in seno alla società cinese: la stella di Obamao, icona pop per un breve tempo anche in Cina, è definitivamente tramontata. A testimoniarlo molti editoriali comparsi tra week end e inizio settimana nei quotidiani cinesi, perfino quelli più aperti, come il Global Times, in lingua inglese: «è stata l’opinione pubblica cinese a spingere il governo per una posizione più intransigente nei confronti degli Usa e le loro provocazioni».
[Pubblicato su Liberazione il 3 febbraio 2010]