«Se il presidente Obama incontrasse il Dalai Lama, andrebbe incontro alla nostra ferma opposizione e finirebbe per minacciare la fiducia e la collaborazione tra Stati Uniti e Cina». E venne il giorno del Tibet nelle burrascose relazioni tra Washington e Pechino: le parole alla stampa di Zhu Weiqun, un alto responsabile del partito comunista cinese, nel momento in cui la massima autorità religiosa tibetana si accinge a raggiungere gli Stati uniti (visita di dieci giorni a partire dal 16 febbraio) chiariscono la precarietà dei rapporti all’interno di quello che venne definito il G2, il mondo racchiuso tra le due potenze mondiali.
Dopo che Google, azienda americana, ha violato le leggi cinesi rendendo disponibili on line contenuti precedentemente censurati, dopo il discorso di Hillary Clinton contro la foga censoria di Pechino e infine dopo la paventata possibilità da parte degli Usa di vendere armi a Taiwan, per un totale di oltre 6 miliardi di dollari, Pechino sembra aver scelto la strategia dell’avvertimento preventivo: il Dalai Lama volerà negli Usa subito dopo il capodanno cinese (e tibetano), ma dalle voci ufficiali cinesi giunge un fermo «no» alla possibilità di un incontro con il presidente Usa. La Cina non ha gradito le ultime mosse di Washington e pare intenzionata a concedere alla Casa Bianca il vantaggio di conoscere la propria opinione, se ce ne fosse bisogno: se Obama incontra il Dalai Lama, la misura sarà colma.
Supportato da un’opinione pubblica profondamente critica nei confronti di Obama, da una stampa che non ha risparmiato, anche nelle sue voci più aperte, come il quotidiano in lingua inglese Global Times, stilettate pesanti contro Washington, il governo di Pechino si muove con una certa sicurezza nell’ammonire l’amministrazione Obama: il popolo, se fosse necessario dimostrarlo, è con i proprio politici. E il rischio è che spinga per qualcosa di più delle sole minacce retoriche.
Il tutto inoltre è avvenuto nel momento in cui erano in corso nuovi incontri tra autorità cinesi e rappresentanti tibetani: come di consueto l’happening è sembrato risolversi in un nulla di fatto, nonostante ottimismi e buoni propositi. La propaganda cinese dipinge ogni giorno un grande futuro per il Tibet cinese, sviluppato, ricco nonché privo del fardello religioso del leader spirituale e non molla di un centimetro l’aspetto che appare più sensibile per i tibetani in esilio: il concetto di autonomia della regione.
Un discorso fuori portata, vista la fermezza cinese al riguardo. Sulla visita del Dalai Lama a Washington, da parte degli Usa arrivano segnali poco apprezzati da Pechino. Un portavoce della Casa Bianca il mese scorso, aveva chiarito le intenzioni di Obama: «il Presidente ha specificato al governo cinese che intende incontrare il Dalai Lama, è sempre stata sua intenzione».
Benzina sul fuoco dalle parti di Pechino a testimonianza di un rapporto di fiducia con Obama ormai gettato alle ortiche, fuori discussione: Obama è la grande delusione cinese, nonostante – poco prima della visita di novembre in Cina – avesse rifiutato un incontro con l’autorità religiosa tibetana, in segno di rispetto per Pechino. Un fatto che si perde perfino nei meandri della longeva memoria cinese.
Da Dharamasala, nel frattempo, il governo tibetano in esilio ha respinto il monito cinese su un eventuale incontro tra il presidente Usa e il Dalai Lama, sottolineando che «non vi è niente di male in un incontro tra Barack Obama e sua Santità», poiché «riteniamo che il ruolo degli Stati Uniti sia di facilitare un dialogo corretto e onesto tra gli inviati del Dalai Lama e il governo cinese».
[Pubblicato su Il Manifesto il 3 febbraio 2010]
[Foto da http://blog.leiweb.it]