Urbanizzazione “a misura d’uomo”

In by Gabriele Battaglia

Un’urbanizzazione incentrata sull’uomo, che punti a eliminare il discrimine sociale che già oggi incide fortemente sull’andamento dell’economia cinese. Il "demiurgo" Li Keqiang chiarirà la sua strategia di riforme entro fine anno. Intanto i media rilanciano. E chiedono fortemente al governo di non ripetere gli errori del passato. Dall’urbanizzazione sostenibile a quella qualitativa, frugale, “contro le stravaganze” e addirittura “incentrata sull’uomo”. Si sprecano gli attributi per il titanico processo che nei prossimi anni dovrebbe portare altri 400 milioni di cinesi nelle città; in attesa che sia il suo demiurgo, il premier Li Keqiang, a chiarirne i dettagli entro la fine dell’anno (come è stato annunciato).

Di sicuro, Li sta consultando esperti proprio in questi giorni e China Daily dà notizia della costituzione di una commissione di dieci luminari che dovrà elaborare le linee guida.

Nel frattempo, una vera e propria offensiva mediatica è partita per chiarire a due miliardi e seicento milioni di orecchie che la chengzhenhua – alla lettera, “urbanizzazione delle città” (contrapposte alle “metropoli” della dushihua o chengshihua) – non sarà solo una questione di misure ma, soprattutto, di qualità. E che il concetto si ficchi bene nelle teste di tutti quei funzionari che, con la precedente corsa al mattone, hanno fatto carriera, si sono riempiti le tasche, hanno devastato la Cina.

A inizio del mese, ha aperto le danze un editoriale del Quotidiano del Popolo che ha denunciato molto energicamente gli errori del passato, da scongiurare come la peste in futuro: “Le indagini hanno dimostrato che 144 città a livello di prefettura intendono costruire 200 nuovi quartieri e, transennando terreni, sfruttando i lungomare, spogliando montagne per costruire le città, intendono svilupparsi tutte insieme verso il cielo. […] Dal supporto industriale fragile a infrastrutture pubbliche sempre in ritardo, dall’enorme spreco di risorse, fino al pesante fardello del debito, la costruzione artificiale di città è da tempo in contraddizione con l’intento originale dello sviluppo. Siamo caduti in un ciclo di input senza output, investimenti senza ritorno, e pura esplosività senza vigore”.

E caso mai qualcuno facesse lo gnorri: “La tendenza del costruire città è come uno specchio, che riflette sia il modello corrente di sviluppo basato sugli investimenti, sia gli svantaggi dello stile di lavoro di alcuni quadri, la disonestà del loro comportamento. Alcune persone si preoccupano della faccia piuttosto che del contenuto, desiderano solo produrre un impulso per dare fama immeritata a loro stessi”.

Ecco quindi una prima indicazione sull’urbanizzazione che verrà: basta colate di cemento indiscriminate; si costruirà solo con criterio, se e dove è necessario.

Una seconda indicazione viene da China Daily, secondo cui Li Keqiang, con il suo gruppo dei dieci, vuole puntare sulla componente umana della nuova urbanizzazione più che sul fattore architettonico e urbanistico. E quindi, si partirà dall’eterna questione dell’hukou, il sistema di residenza introdotto nel 1958 che dà ai cinesi diritti e servizi pubblici (sanità, istruzione, welfare) solo nel luogo dove sono registrati, generalmente dalla nascita. Con la grande emigrazione degli ultimi trent’anni, milioni di umani si sono però riversati nelle città, dove si ritrovano senza diritti di cittadinanza: in Cina esistono quindi una popolazione di serie A e una di serie B, i residenti e la cosiddetta “popolazione fluttuante”. La situazione acuisce una diseguaglianza già ai limiti del sopportabile e aumenta i rischi di instabilità sociale.

Come cambieranno le cose? Non si sa ancora, ma la corrente di pensiero più in voga all’interno dell’establishment cinese sembrerebbe propendere per un’estensione dell’hukou – e quindi dei diritti – a fette più ampie di territorio. Per esempio, il permesso di residenza del contadino nato nel villaggio vattelapesca del Guangdong, potrebbe valere in tutte le 21 prefetture, 121 contee e 1642 municipalità della provincia e non solo nel suo luogo di residenza specifico, di modo che potrà accedere a servizi ed avere diritti anche a Guangzhou piuttosto che a Dongguan e Shenzhen.

Questo permetterebbe di evitare il discrimine sociale, offrendo al tempo stesso una libertà di movimento relativa e una flessibilità nell’allocazione della manodopera, senza l’intasamento eccessivo delle solite cinque o sei metropoli su cui convergono migranti da tutta la Cina.

L’agenzia Nuova Cina cita diversi esperti, che sembrano allineati nell’affermare che la nuova urbanizzazione dovrebbe “risolvere i problemi di alloggio, istruzione, assistenza sanitaria e pensioni dei lavoratori rurali, concedendo loro lo stesso trattamento di abitanti delle città”. In attesa di scoprire se sarà davvero così, si prenda nota del fatto che, secondo China Daily, Li avrebbe dichiarato: “Dobbiamo farci guidare dalle speranze della gente comune ed essere attivi e ordinati nel portare avanti il processo”.

Il che implica anche il fatto di offrire un lavoro dignitoso a tutti. Xinhua cita l’accademico Zhang Yansheng, secondo cui “oltre a fornire servizi pubblici alla pari, il governo dovrebbe anche promuovere lo sviluppo del settore dei servizi e incoraggiare le piccole imprese a offrire opportunità di lavoro ai lavoratori migranti. Il Paese deve fornire l’istruzione professionale e la formazione tecnica necessarie ai lavoratori rurali”, aggiunge Zhang, e “i punti nodali per puntare a un nuovo tipo di urbanizzazione sono la qualità e l’efficienza, invece che la quantità”. L’accademico conclude che la chengzhenhua deve incorporare “le idee di crescita verde e intelligente e anche valori come la frugalità, l’amore per l’ambiente e l’armonia sociale”.

E i costi? La Cina aveva 262,61 milioni i lavoratori migranti alla fine del 2012, circa un quinto della popolazione totale, secondo dati dell’Ufficio Nazionale di Statistica. A luglio, un think-tank legato al governo aveva riferito che il costo per insediarli in città potrebbe essere di circa 650 miliardi di yuan l’anno (oltre 80 miliardi di euro): altrimenti detto, il 5,5 per cento del gettito fiscale del 2012.

[Scritto per Lettera43; foto credits: scmp.com]