Unità 731, gli angeli della morte del Sol Levante

In by Simone

‘Base Unità 731’. Una lastra di cemento con incisi alcuni caratteri accoglie i visitatori nel museo di Pingfang. Per i cinesi il complesso nel distretto meridionale della città di Harbin rappresenta ciò che i campi di concentramento sono per gli europei. Un luogo simbolo degli orrori della Seconda Guerra Mondiale, che Pechino spera possa diventare patrimonio mondiale dell’umanità. E sebbene l’Unesco abbia respinto la prima richiesta presentata dall’amministrazione locale, il governo si è detto pronto a raddoppiare gli sforzi perché la proposta sia accettata entro il 2013.

Tra il 1937 e il 1945 l’esercito imperiale nipponico trasformò il complesso nel proprio centro di ricerca per la guerra batteriologica. Le cavie furono migliaia di prigionieri cinesi, coreani, mongoli e russi. Secondo il governo cinese, oltre 3.000 detenuti morirono nel campo, vittime degli esperimenti ordinati dal direttore Ishii Shiro, definito il “Mengele giapponese”. Un riferimento a Jozef Mengele, l’ufficiale nazista, medico del campo di concentramento di Auschwitz, soprannominato l’angelo della morte.

Sulle ricerche dell’Unità 731 e sulla guerra batteriologica si seppe poco o nulla fino al 1981, quando ‘The Devil’s Gluttony’ (La gola del diavolo) dello scrittore Seiichi Morimura divenne un successo editoriale. Tokio continuò per anni a minimizzare le proprie responsabilità. La prima causa di risarcimento delle vittime fu aperta soltanto nel 1997. Ma i tribunali nipponici rigettarono per due volte le richieste di 180 querelanti cinesi, familiari delle vittime degli attacchi biologici. Nel 2003, dopo cinque anni di processi, e poi in appello nel 2005. Il Giappone, sentenziarono, non avrebbe dovuto né porgere scuse formali né accordare i risarcimenti .

Cinque anni fa l’amministrazione locale di Harbin stanziò 10 milioni di euro per il restauro del sito che ancora non può competere con altri due maestosi complessi per commemorare le stragi dall’esercito giapponese: il Memoriale del massacro di Nanchino e quello del ponte Marco Polo a Pechino.

“Essere riconosciuti dall’Unesco servirà a ricordare le atrocità delle truppe giapponesi in Cina”, ha detto Jin Chenmin, storico dell’Accademia delle Scienze di Harbin, intervistato da ‘Radio China International’, “Pingfang è un simbolo universale come Auschwitz e Hiroshima".

I dettagli sulla nuova richiesta non sono ancora stati resi pubblici, ma il caso potrebbe toccare un nervo scoperto delle relazioni tra Pechino e Tokio: l’occupazione giapponese della Cina negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso. A gennaio il mondo accademico ha fatto un passo avanti nel ricucire lo strappo. Dopo tre anni di lavoro, per la prima volta, un libro di storia, condiviso da entrambi i Paesi, ha definito un “atto di aggressione” l’intervento dell’esercito del Sol Levante. “I rapporti sino-giapponesi sono stabili e questo ha messo in secondo piano alcune questioni storiche”, ha detto il professor Bu Ping dell’Accademia cinese delle Scienze sociali, intervistato dal quotidiano online ‘Asian Times’, “ma questo non vuol dire che siano state risolte”.

Anche in Cina l’opportunità di vedere Pingfang nella lista dei siti protetti dall’Unesco non convince tutti. Il ‘Quotidiano del popolo’ ha citato il commento dell’internauta Yan Yang sul sito del giornale. L’Unità 731, ha scritto, non è un patrimonio dell’umanità, ma il simbolo della legge del più forte.

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