Un naturalizzato cinese in nazionale

In Cina, Economia, Politica e Società by Alessandra Colarizi

Solo pochi giorni fa, incontrando i rappresentanti della diaspora cinese confluiti sotto i vessilli della Conference for Friendship of Overseas Chinese Associations, il presidente cinese Xi Jinping aveva esortato i connazionali a contribuire alla “rinascita nazionale”. Il mondo del calcio non fa eccezione. Nella giornata di giovedì il centrocampista, Nico Yennaris, è diventato ufficialmente il primo giocatore straniero naturalizzato cinese ad essere convocato nella nazionale. Nato a Londra 26 anni fa da madre cinese e padre cipriota, l’ex terzino dell’Arsenal aveva rinunciato alla cittadinanza britannica – come imposto dalle leggi locali – per vestire la maglia del Beijing Guo’an, la principale società calcistica della Chinese Super League, la serie A d’oltre Muraglia. Da quando è approdato nel team lo scorso 31 gennaio, Li Ke (così è ormai noto alle tifoserie cinesi) ha segnato due goal in otto partite, diventando il primo calciatore naturalizzato a centrare la rete. “Un grande onore” lo ha definito ai microfoni della CCTV, auspicando una convocazione in nazionale. Il suo debutto nel Dragoni rossi potrebbe avvenire il prossimo mese contro le Filippine e il Tajikistan, partite propedeutiche per la qualificazione alla Coppa del mondo 2022 ospitata dal Qatar.

È dal 2011 – ancora prima di diventare presidente – che Xi Jinping va ripetendo di avere un sogno: che la nazionale si qualifichi un’altra volta ai mondiali (unico precedente nel 2002 con uscita al primo turno), che arrivi a ospitare una finale e a vincerne anche una entro il 2050. A riportarlo nella realtà, le deludenti prestazioni del calcio cinese. Nel novembre 2015, il ministero dell’Istruzione ha dichiarato il football materia obbligatoria del curriculum scolastico contestualmente all’annuncio di un piano ambizioso che prevede l’installazione di campi da calcio in 20mila scuole e la formazione di 100mila giovani calciatori. Ma è solo con la clamorosa debacle di quest’anno all’Asian Cup che Pechino ha avviato il nuovo programma di naturalizzazione dei giocatori stranieri. Un escamotage con cui rimpolpare la nazionale e aggirare le quote sui giocatori d’oltreconfine, ridotte nel 2017 da quattro a tre stranieri per squadra in risposta allo shopping “irrazionale” delle società calcistiche cinesi (451,3 milioni di dollari nel solo 2016). L’anno successivo, la Chinese Football Association ha stabilito il limite massimo per gli stipendi dei calciatori a 10 milioni di yuan l’anno (1,45 milioni di dollari), ponendo la spesa complessiva per ogni club a non oltre 1,2 miliardi di yuan nel 2019 e non più di 900 milioni nel 2020. Misure che – unitamente alla tassazione feroce sulle transazioni per l’acquisto di atleti stranieri – avrebbero dovuto invogliare le squadre locali a puntare sulle giovani promesse cinesi anziché sui campioni internazionali. Missione fallita.

Nonostante le preoccupazioni sollevate in “parlamento” per un possibile abuso della guoji fa (la legge sulla cittadinanza), la politica delle naturalizzazioni ha già riscosso un certo successo nell’ambiente, tanto che Marcello Lippi l’avrebbe addirittura imposta come precondizione per un ritorno alla guida dei Dragoni rossi dopo appena 119 giorni dalle dimissioni. Ad oggi, oltre a Yennaris, anche il norvegese John Hou Saeter e l’inglese Tyias Browning hanno deciso di cambiare passaporto per indossare rispettivamente le maglie del Beijing Guo’an e del Guangzhou Evergrande. Speculazioni giornalistiche prevedono già un’estensione della cittadinanza anche a veterani della Super League senza origini cinesi, come i brasiliani Elkeson de Oliveira Cardoso e Ricardo Goulart Pereira.

Un po’ troppo per le autorità, che dettano nuove condizioni: sì all’inclusione dei forestieri purché rispettino la patria d’adozione. E’ così che la Chinese Football Association ha imposto regole inedite per coltivare l’integrità ideologica dei giocatori naturalizzati. Dallo scorso marzo, le organizzazioni comuniste a livello grass-roots sono chiamate “a educare i calciatori sulla storia e la teoria del partito”, mentre ai club spetta il compito non solo di “accertare la performance sportiva” dei loro uomini ma anche di valutarne “le opinioni”.

[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]