Nasce la Zona finanziaria speciale a Wenzhou. Occasione per riproporre il lungo reportage di China Files sulla crisi del credito nello Zhejiang. La regione da cui provengono la maggiorparte delle merci e dei cinesi che vivono e lavorano in Italia. "Se avessi idea di dove scappano, andrei a prenderli io stesso, ma non sappiamo come acchiapparli, potrebbero essere ovunque. Quanto a me, sono così sotto stress che non riesco a trovare il tempo per andare in clinica a far controllare le mie mani gonfie".
Zhou De Wen è il presidente della locale associazione delle piccole imprese, ma il suo biglietto da visita rivela almeno una dozzina di altre cariche, secondo il costume dei potenti cinesi. È un uomo del Partito.
Siamo a Wenzhou, nella provincia più industriosa della Cina, lo Zhejiang. È qui che la crisi ha morso più duramente. La piccola industria votata all’export, la spina dorsale del boom cinese, ha l’acqua alla gola.
Gli imprenditori chiudono dall’oggi al domani, alla lettera: scappano e lasciano gli operai senza salario.
La tensione è stata mantenuta sotto traccia finché, a fine ottobre, migliaia di persone sono scese in piazza a Huzhou, sempre nello Zhejiang, assaltando uffici pubblici e incendiando automobili, per protesta contro l’aumento delle tasse locali.
È stata una rivolta dell’esasperazione diversa dalle migliaia di “incidenti” provocati dai contadini vessati dalle requisizioni di terre.
Qui, si è verificata un’alleanza inedita di produttori: piccoli imprenditori e le loro maestranze che, insieme, assediano i luoghi del potere dopo la classica goccia che fa traboccare il vaso.
La crisi c’è, tutti zitti
"Non voglio parlare, penso che potrebbe danneggiare il mio business". "Non sono a Wenzhou, non so quando tornerò".
Diversi tentativi, risposte simili, un solo risultato: niente da fare. Nessuno degli imprenditori di Wenzhou vuole parlare. Il tema è troppo sensibile dal punto di vista politico, può attirare solo guai.
Un giornalista canadese ha scambiato quattro chiacchiere con un “imprenditore”: «Ha voluto che ci incontrassimo nell’atrio del mio hotel, non mi ha detto nulla che non sapessi già e non mi ha portato nella sua fabbrichetta».
Alla pizzeria italiana, il coproprietario cinese ci dice che in città tutti lo sanno: «Gli imprenditori scappano, se la filano con la cassa». Lo dice con espressione divertita. Possiamo parlarne? Cambia espressione e se ne va.
Un nuovo tentativo, via telefono, dalle parti di Zhongshan, la città del Guangdong che porta il nome di Sun Zhongshan, il fondatore della Cina moderna da noi noto come Sun Yat-sen. Niente.
"Ne ho parlato in macchina con un paio di imprenditori – riporta il contatto – non sono disponibili neanche a un’intervista scritta, non vogliono esporsi".
Paradossi cinesi. Le autorità parlano della crisi, accettano che emerga, e chi la subisce tiene la bocca cucita. Non è censura dunque, è un’abitudine.
Il problema non è solo il contenuto, cioè quello che il giornalista più o meno in buona fede potrebbe scrivere. Il punto è che se le parole dell’intervistato saranno inserite in un contesto “negativo”, magari un giornale che “parla male di”, lui perderà la faccia. E forse anche il business.
E poi, che bisogno c’è di raccontare? Il cinese “della strada” non sente in genere la nostra stessa urgenza morale di far sapere al giornalista la propria verità o il proprio parere.
In fondo, il giornalismo è un prodotto occidentale, quel lavoro che “fa le pulci” e che alimentando di continuo la discussione è necessario alla sopravvivenza della democrazia. Niente di tutto ciò nella tradizione cinese.
L’intellettuale e il funzionario politico sono la stessa persona, incarnano il potere, lo rappresentano, ne garantiscono la continuità. Al limite c’è sempre il distacco a sostituire la ribellione: confuciano di giorno e daoista di notte. Non è necessaria la “verità”, che assume valore solo in funzione delle conseguenze che produce.
"Perché dovrei? Chi mi obbliga?". Così, il piccolo imprenditore in crisi di Wenzhou si rifiuta di incontrare il reporter.
Ma il funzionario della stessa città, Zhou De Wen, spiffera tutto sulla crisi in corso: ha considerato i pro e i contro e sa che se vuole riforme più liberali deve premere sul potere anche attraverso i media.
Parla senza freni: "Quasi tutte le imprese di Wenzhou hanno avuto problemi: tra quelle fallite, quelle che hanno fermato la produzione e quelle che l’hanno ridotta della metà, si arriva al 20 per cento del totale. Io avevo previsto questa crisi già a gennaio 2011, ma allora il governo non prese nessuna misura".
La sua è la voce di un Sud operoso che si trova improvvisamente in braghe di tela. Parla a nuora (il giornalista straniero) perché suocera intenda: la suocera è Pechino, la capitale del potere politico. Da lì devono arrivare le risposte.
"Si parla solo di Wenzhou, ma le stesse cose succedono anche altrove – a Xiamen e Guangzhou – però tutti gli occhi sono puntati su di noi". Si sta giocando molto, il signor Zhou, forse tutto. E ha le mani gonfie e tutt’altro che una bella cera.
I “padroncini” in ginocchio
Anche se la Cina non è poi così “vicina”, alcuni luoghi apparentemente remoti del Paese sono più prossimi alle nostre vite di quanto si possa credere.
Se si dice Zhejiang, Wenzhou, basterebbe entrare in un bar di via Paolo Sarpi a Milano, o in uno dei tanti negozietti di piazza Vittorio a Roma, e chiedere ai cinesi che si incontrano da dove vengono.
Risponderanno «Zhejiang» e molti di loro specificheranno «Wenzhou». Non solo: potete scommettere che, controllando l’etichetta o le istruzioni di un qualsiasi vestito o giocattolo made in China, scoprirete che la provenienza è Zhejiang. E in molti casi, specificamente Wenzhou.
È la regione dei “padroncini”: se i cinesi sono noti per il loro spirito imprenditoriale, i wenzhounesi in particolare, sono i più imprenditori tra i cinesi. Capacità di adattamento, spirito d’iniziativa, tenacia, contatti giusti.
È in questa regione che si è sviluppato il movimento delle piccole e medie imprese che ha inondato l’Occidente di prodotti e che ha visto nascere quella moderna classe imprenditoriale divenuta il perno attorno al quale si è sviluppata l’economia cinese.
E, in un circolo virtuoso, gli imprenditori si sono a loro volta fatti ceto medio che spende e consuma, dando un ulteriore impulso al mercato interno.
Wenzhou, nel recente sviluppo economico del Dragone, è considerato uno dei modelli di crescita più solidi: unico nel suo genere, perché basato su quella che Hu Shuli, nota giornalista indipendente cinese, ha chiamato “imprenditoria privata guidata”, ovvero formata da nuclei familiari che gestiscono attività concentrandosi sulla produzione di beni di consumo, per lo più di necessità quotidiana (i piccoli prodotti per i grandi mercati), con il beneplacito dello Stato, che controlla i flussi di capitale, di forza lavoro e di tecnologia.
Dopo la prima licenza concessa nel 1980 Wenzhou ha costruito il suo successo. E a differenza del Guangdong, la regione cinese che da sola produce un quarto delle esportazioni del Paese, non è mai dipesa da investimenti esteri, o dal sostegno di banche cinesi.
Poi, improvvisamente, lo Zhejiang, e Wenzhou in particolare, sono entrati in un vortice mediatico causato da quella crisi che ha messo in ginocchio molti dei “padroncini”.
Una rapida notorietà, frutto di mesi di sofferenza, fino all’outing del South China Morning Post, quotidiano di Hong Kong, che il 4 ottobre scorso ha pubblicato un articolo sulla crisi delle piccole e medie imprese nel Sud cinese: il mondo scopre lo Zhejiang.
Un rapporto della banca d’affari britannica Barclays, segnala almeno diciannove fallimenti aziendali di medie dimensioni a Wenzhou.
"Queste – scriveva il quotidiano di Hong Kong – rappresenterebbero solo una piccola frazione delle 3.993 aziende della città sud-orientale nota per il suo spirito imprenditoriale. Il mercato è stato interessato da altri fallimenti, che potrebbero segnare l’inizio di una crisi del credito tra piccole e medie imprese".
Due scelte: fallire o fuggire
Il problema è fondamentalmente di liquidità. Quando i piccoli imprenditori si sono trovati a corto di soldi, il sistema bancario pubblico si è scoperto improvvisamente inefficiente.
Il meccanismo è semplice e al tempo stesso perverso. Io, banchiere di Stato, sono tenuto a concedere prestiti a te, manager di un’azienda di Stato, perché abbiamo lo stesso padrone; se poi il tuo baraccone va male, sarai tu a dover rispondere al potere politico, fatti tuoi.
Se invece io, banchiere di Stato, presto soldi a te, imprenditore privato, sono io a essere responsabile di fronte al potere politico; se tu fallisci, mi chiederanno perché ti ho concesso un prestito e potrei essere accusato di corruzione e finire male.
I forzieri in cui si accumulano le risorse frutto dell’attivo commerciale cinese si aprono così sia per i campioni nazionali che comprano asset strategici in giro per il mondo sia per i baracconi improduttivi, ma politicamente protetti.
Di sicuro non per i piccoli imprenditori privati in difficoltà. Loro, quindi, si sono rivolti al mercato ombra, illegale: altri uomini d’affari, magari solo più scaltri o fortunati, che prestano denaro a tassi da strozzinaggio. Privati che applicano interessi che vanno dal 20 al 180 per cento.
Così, quando gli imprenditori hanno capito che mai sarebbero riusciti a pagare il debito, non hanno avuto che due scelte: farla finita o sparire dalla circolazione.
"Non sono sorpresa di vedere che le piccole e medie imprese stiano sballando – ha detto Yao Wei, la capo economista di Société Générale Asia, al South China Morning Post – il fatto che siano disposte a prendere in prestito denaro a così alti tassi di interesse significa che sono alla disperata ricerca di liquidi".
Secondo Hu Shuli, fondatrice e direttrice del magazine economico Caixin, «la recente ondata di crolli ha reso evidente il tallone d’Achille del modello di Wenzhou.
La tempesta è iniziata quando le nuove politiche bancarie nazionali, volte a raffreddare il mercato immobiliare, hanno prodotto un’improvvisa carenza di credito. Il settore privato di Wenzhou, cui da tempo mancava il sostegno delle istituzioni finanziarie di proprietà statale, ha dovuto ricorrere a finanziamenti privati.
"I risultati sono stati estremamente gravi per gli elevati costi di finanziamento e di rischio. A Wenzhou l’economia è incentrata soprattutto sul settore manifatturiero, che si basa sull’imitazione più che sull’innovazione. E l’innovazione non si ottiene se non si ha credito."
"Anche a me piacciono i soldi – dice ancora il signor Zhou – ma io al sistema finanziario privato non mi sono mai appoggiato perché avevo previsto come sarebbe andata a finire".
Non è stato così per Hu Fulin, che piccolo imprenditore certo non è: boss della più grande fabbrica d’occhiali cinesi, la Zhejiang Center Group, è scappato negli Stati Uniti il 20 settembre, lasciando un miliardo e mezzo di yuan in debiti (circa 185 milioni di euro), tra banche e creditori privati.
Venti giorni dopo è ritornato in patria perché il governo gli ha promesso di contribuire alla ristrutturazione del debito.
Feng Xingyuan è vicedirettore dell’Unirule Institute of Economics e membro dell’Accademia cinese degli studi sociali.
Se gli si domanda quale insegnamento trarre dalla lezione di Wenzhou, mette da parte tutte le precauzioni politiche e diventa insolitamente assertivo: "Le proteste sono tipiche di un sistema che ha alcuni problemi. Uno di questi è la presenza dello Stato nei settori più fruttuosi dell’economia. Non c’è soluzione: lo Stato deve lasciare spazio all’imprenditoria privata".
Sembra una risposta perfetta per il ceto imprenditoriale di Wenzhou: con le proprie forze ha contribuito allo sviluppo cinese. Dalla politica non aspetta aiuti, ma neanche bastoni tra le ruote per opera del Partito comunista.
Tutto nelle mani del Partito
In questa storia, il Partito è il grande convitato di pietra. La crisi dello Zhejiang aiuta infatti a definire meglio i contorni della sfida politica che terrà impegnato l’establishment cinese nei prossimi mesi.
Il 2012 si chiuderà con il grande rimpasto ai vertici. Con il congresso del Comitato centrale, probabilmente a novembre, cambieranno infatti sette dei nove membri che siedono nel comitato permanente del Politburo, di fatto la stanza dei bottoni del potere cinese.
Xi Jinping è pronto a sostituire Hu Jintao come presidente della Repubblica e segretario del Partito; Li Keqiang dovrebbe subentrare al premier Wen Jiabao.
Queste sono le previsioni “semicerte” di un cambio apparentemente pacifico che nasconde però molte insidie e conflitti. Le carte in tavola potrebbero cambiare ancora.
Non si tratta di Partito comunista contro democratici, o pseudo tali, e neanche (solo) di Partito contro popolazioni locali che si oppongono ai funzionari corrotti.
Si tratta di una battaglia di sistema: se da un lato c’è chi ancora sostiene uno sviluppo controllato interamente dallo Stato, dall’altro c’è un ceto di imprenditori che chiede spazio, cercando di capire a quale sponda politica – sempre all’interno del Partito – appoggiarsi.
Dalle nostre parti diremmo che gli statalisti si scontrano con i liberisti: il primato della politica, rappresentato dai “pechinesi”, si contrappone alle pulsioni del mercato incarnate dal ceto medio di Shanghai, Wenzhou, Xiamen, Guangzhou, il grande Sud.
Ma i giochi sono complicati da molte altre variabili e soprattutto devono restare dietro le quinte, per non destabilizzare la Cina. In questo quadro, la rivolta di Huzhou, quell’alleanza inedita di produttori, è uno dei tanti “scontri interni” che il Partito vuole evitare.
Una luce sui “crediti ombra”
"Il premier Wen Jiabao mi ha concesso un grande riconoscimento – continua Zhou De Wen – sono entrato nella cerchia di quelli che possono dargli dei suggerimenti. Gli ho detto che il modello finanziario è vecchio, di tipo sovietico, non più adatto alle imprese.
Quindi, visto che c’è un enorme numero di prestiti ombra, la soluzione è di legalizzarli, creando delle misure di controllo che tutelino tutti.
Viaggiando all’estero, ho visto che da voi si possono avere soldi dal mercato azionario e che circa il 70 per cento dei finanziamenti non arriva dalle banche. Per cui anche da noi si tratta di riformare il sistema di finanziamento delle piccole e medie imprese.
All’inizio non ascoltavano, adesso invece sembrano molto interessati alle mie proposte".
Si chiama liberalizzazione del credito. A metà dello scorso novembre le agenzie battono una notizia che in Occidente passa quasi inosservata, ma che rappresenta una vera rivoluzione: a Wenzhou parte un progetto pilota.
Il governo locale deve creare un centinaio di agenzie di microfinanza, da due a quattro fondi d’investimento privati e un registro delle agenzie finanziarie “per trasformare la città in un centro di distribuzione del capitale privato”, scrive il Global Times, la versione “pop”, in lingua inglese, del Quotidiano del popolo.
Di fatto, si tratta della legalizzazione del “credito ombra”. Altre norme, che calano direttamente dal Consiglio di stato cinese (leggi “governo”), prevedono la riduzione delle tasse e l’allentamento della stretta sul credito bancario.
A inizio 2012 circolano indiscrezioni su nuove misure che avrebbero portata non solo locale, bensì globale. La Cina, si dice, aprirà alle vendite allo scoperto (short selling, in inglese) quella pratica speculativa che consente di “scommettere”, guadagnare, non solo sul rialzo dei mercati, ma anche sui ribassi.
In pratica, servono a far circolare più denaro oltre Muraglia attirando anche i capitali stranieri. Forse il potere cinese è convinto di poter controllare la bestia, la speculazione finanziaria, che proprio ora sta tirando il collo all’Europa grazie alle stesse pratiche cui la Cina strizza l’occhio.
Oppure, semplicemente, il Partito comunista non è il monolite a cui pensiamo noi occidentali, bensì un contenitore nel quale ultraliberisti e ultrastatalisti si scontrano dietro le quinte ma con uno scopo comune: conservare il consenso di quel ceto medio che è la spina dorsale della nuova Cina.
[Pubblicato sul numero di marzo di E/Il mensile. Foto credits: m.wikitravel.org]* Gabriele Battaglia è fondamentalmente interessato a quattro cose: i viaggi, l’Oriente, la Rivoluzione e il Milan. Fare il reporter è il miglior modo per tenere insieme le prime tre, per la quarta si può sempre tornare a Milano ogni due settimane. Lavora nella redazione di Peace Reporter / E-il mensile finché lo sopportano.