Necessario strumento di autosupporto per digerire i fraintendimenti e le inquietudini quotidiane. Quando ogni sforzo di dialogo interculturale cede davanti alla bieca logica capo-dipendente.
30 marzo 2010, 11:28
Non molla mai!
(Giornata di ieri, non ho fatto in tempo a scrivere).
Mi rendo conto che a volte la pigrizia ha la meglio su di me, specie di lunedì. Mi rendo conto anche di dare troppe cose per scontate, specie di lunedì.
È però anche vero che il gioco dei “perché?” tende ad essere sfiancante.
Specie di lunedì.
Specie quando ci sono le elezioni di mezzo.
Inizia col chiedermi di mostrargli la mia tessera elettorale (nota a margine: negli ultimi giorni fa fotografie di qualunque cosa: a futura memoria, dice. Di strade, fermate della metro, insegne di negozi, della porta dell’ufficio, dell’ascensore, dei cartelli dove c’è scritto ‘Fiumicino’ e di quelli dove c’è scritto ‘Auditorium’, della casa del cinema, di Largo Mastroianni, dei piccioni sui tavoli e persino del cielo blu). Gliela mostro e la fotografa. Poi mi chiede: “Perché ci sono i timbri?”. Non so rispondere nulla di meglio che: “To certificate you voted”. Lui non molla: “It’s not enough. There has to be a certain logic behind it”.
Ci sarà sicuramente una logica, ma è lunedì mattina e questo è l’ultimo dei miei problemi. Comunque lo accontento e, infine, gli do’ una risposta: “Credo per evitare che uno voti due volte, sostanzialmente”. Ora è soddisfatto, ma, tempo 5 minuti, e parte con il round successivo di domande. Vuole sapere come funzionano le elezioni regionali, perché alcune regioni votano prima e altre dopo, non gli basta sapere che regioni a statuto ordinario e regioni a statuto speciale votano in due tornate diverse, vuole sapere perché e come funziona.
Così perdo tempo a cercare le leggi elettorali, il tatarellum e il delirio degli ultimi anni… e riesco a dargli una spiegazione abborracciata (mentre mi domando: che ci farà di tutto ciò dovendo scrivere un articolo di poche righe?). Ma l’acme della surrealtà lo raggiunge quando, parlando di altro, viene fuori il nome di Alemanno e lui domanda, a me e all’altra ragazza: “Ma dove vive Alemanno a Roma?”.
“Alla Balduina”
“Non c’è una residenza ufficiale del sindaco?”
Sulle nostre facce si dipinge un “Boh” verbalmente correlato a un “Non credo”.
“Ci deve essere”
Lui si mette al computer a testa bassa e tace per un po’. Lo conosco, ormai, e lo so che non molla mai. Mentre io cerco, lui cerca. Io gli dico che non si parla da nessuna parte della residenza del sindaco, e che mi pare non abbia molto senso, lui dice: “Ci deve essere!”, poi esclama tutto galvanizzato: “Ecco, trovato: è il Palazzo Senatorio!”. Gli dico: “Guarda, l’ho letto pure io, ma quella è la sede di rappresentanza, dove c’è lo studio del Sindaco, dove riceve gli ospiti, ecc”. Lui è irremovibile: “Sicuramente ci sarà anche un appartamento privato”.
Magari ha pure ragione, ma è assurdo passare le giornate a dibattere in questa maniera come bambini che giocano a battaglia navale.
Intanto i risultati delle elezioni mi deprimono.
30 marzo 2010, 11:48
Documentare, documentare, documentare
Ho già detto delle foto che fa per ricordare e, soprattutto (o almeno così lo spiega), per documentare Roma in vista del suo prossimo nascituro libro sull’Italia.
L’altro giorno, però, faceva foto per un articolo.
L’articolo era su un cuoco giapponese ospite della Prova del cuoco.
Ero incredula: per tutta la durata del programma, è stato incollato alla tv con la macchinetta fotografica imbracciata come un fucile, e, a un certo punto, è arrivato persino a incunearsi sotto la scrivania per fare una foto migliore alla tv, che è posta davanti al tavolo.
Come in trincea.
30 marzo 2010, 19:06
L’imperativo categorico del giornalista: provare, provare, provare
In certi momenti la mia considerazione di lui si approssima allo 0.
Oggi mi chiede: “How does it work skype?”, glielo spiego, pensando: “Ah, finalmente s’è svegliato!”. Ha poco più di 40 anni e a volte parla come uno che vive fuori dal mondo (e meno male che dice sempre che i giornalisti devono essere aggiornati).
Già qualche tempo fa ci lasciò a bocca aperta quando, di fronte a una sciocca domanda come: “Sta avendo successo in Giappone l’I-phone?”, lui rispose: “What the hell is the I-phone?”.
Oggi mi chiede di elencargli tutte le novità tecnologiche di cui lui è all’oscuro. Non parliamo di chissà quali strumenti per adepti e geek, ma di cose quotidiane, come Facebook o Twitter. Di ogni cosa dice: “E che me ne devo fare? A cosa mi serve crearmi un’identità parallela quando sono già ‘full of me’” ?(e quando lo dice, vorrei potergli confidare che full of me tradotto in italiano con un semplice “pieno di me” mi sembra perfetto per descrivere il suo carattere).
Insiste che non ha nemmeno voglia di provare queste cose, che non gliene frega nulla. Mi sento allora autorizzata a prenderlo in giro: “Ma come? Non puoi dire che non ti interessa, prima devi provare”. Ormai due anni fa, infatti, mi parlava con la sua solita boria ed esaltazione di quando in America aveva scritto un articolo sulle armi ed era andato a sparare al poligono. Io ero un po’ disgustata, lo ammetto, e lui lì a spiegarmi che per scrivere quell’articolo non poteva esimersi dallo sperimentare cosa effettivamente si prova a tenere tra le mani una pistola e un fucile e a sparare.
Ricordo perfettamente cosa disse col suo tono da guru: “Un giornalista deve provare tutto, non può avere pregiudizi!”.
Forse che Facebook è più pericoloso di una pistola…?
*Lavoro per un giornale giapponese, ma in Italia. Non parlo giapponese, ma passo le giornate a discutere con un giapponese: il mio capo. Ne ho cambiati diversi, eppure molte questioni sono rimaste le stesse. Ce n’è una, poi, a cui proprio non so dar risposta: che ci faccio qui? (senza scomodare Chatwin per carità)