Tutto cominciò con il MIDI (sui festival musicali cinesi, 2a parte)

In by Simone

Il giorno dopo sono di nuovo su un bus, questa volta sulla via dell’infinita periferia orientale pechinese. Ho scelto lo Strawberry per la sete di musica rimasta inappagata il giorno prima. Il programma è molto meno internazionalizzato, ma con band di valore nel panorama musicale alternativo cinese.

Lo Strawberry Music Festival è ormai una realtà di spessore, in grado di innescare una macchina organizzativa possente. In passato, la madrina del festival, la Modern Sky Records, è riuscita a portare in Cina band straniere come Yeah Yeah Yeahs, Blonde Redhead e Xiu Xiu. Quest’anno erano stati allestiti quattro palchi (uno principale, uno secondario, uno per artisti taiwanesi e uno elettronico), con decine di artisti che si sono esibiti durante ognuno dei tre giorni della manifestazione. Nella zona centrale del parco i diversi punti vendita e di ristoro sono stati presi d’assalto, mentre chi era in cerca di un prato e di relax ha potuto trovare posto su un’ampia radura fra due collinette alla cui estremità si innalzava il palco principale. Lo Strawberry è un evento di grande dimensioni, rivolto a un pubblico, all’interno di un mercato.

Ma, come avviene sempre nei grandi eventi musicali, quel consumismo di fondo ormai radicato anche in terra cinese si attenua di fronte alla forza coesiva della musica. Il palco principale è animato nel primo pomeriggio dalle note della chitarra di Zhou Yunpeng, cantautore non vedente divenuto una delle figure più note dell’impegno sociale in Cina, condito da stralci di ironia e arte poetica. La parola d’ordine di Zhou Yunpeng è l’essere tra la gente, e fa effetto vederlo tra così tanta gente. Ho assistito ai suoi concerti all’edizione dello Strawberry di due anni fa e a quella dello Zebra Music Festival dell’anno scorso, sempre tra pochi –affezionati- intimi.

Quest’anno il suo concerto ha attirato una folla elevata di gente che conosceva parte dei testi a memoria. Zhou Yunpeng sta divenendo celebrità, si mormora da qualche mese, dopo il successo di un suo libro di poesie di recente pubblicazione. Nel pomeriggio è anche il turno delle guest-star fra gli ospiti stranieri, i giapponesi Mono, tra gli alfieri di un genere –il post-rock- che da anni si arrabatta su se stesso in cerca di sbocchi espressivi autentici e originali. La loro esibizione è l’esecuzione accurata di gran parte dell’ultimo lavoro, il bellissimo, epico e intenso Hymn to the Immortal Wind.

Con tutti i se tecnici (parte degli amplificatori saltavano ripetutamente) e i ma nell’atmosfera (più che a un festival mi viene spontaneo immaginarli come una band da spazio chiuso), i Mono restano uno spettacolo assoluto di livello superiore, a cui assistere dal vivo è sempre un onore. Dopo la loro esibizione mi sono spostato verso il palco secondario per seguire l’esibizione di una delle band più chiacchierate in Cina e non solo.

Gli Hanggai sono al centro di una crescente attenzione mediatica internazionale, essendo reduci da tournée fuori dalla Cina e dalla pubblicazione di un album distribuito negli US. Se è parlato tanto nell’ultimo anno di questo gruppo dai trascorsi metal-punk e da ormai sette anni approdato al folk.

La band è in maggioranza mongola, canta con abiti e strumenti tradizionali, a cui aggiunge le chitarre elettriche, basso e batteria. L’estasi data dalla padronanza delle antichissime tecniche di canto di gola Tuva e l’energia sprigionata dai loro live, tutta da saltare a tempo di musica, completano il quadro di una band di successo, che ha saputo fare del proprio nome un richiamo alla gioia di vivere e alla tutela della cultura etnica mongola. È indubbio che gli Hanggai trovino la loro forza in un talento al di sopra della media, ma bisogna anche tenere conto della determinazione che questa band negli anni ha prestato in modo sempre più marcato al proprio progetto artistico, con una costanza fuori dal comune per un gruppo cinese, generalmente tutt’altro che proiettato al futuro.

Dopo l’esibizione degli Hanggai, sono saliti sul palco i Second Hand Rose, il cui nome riprende uno degli appellativi che i cinesi destinano alle prostitute. I Second Hand Rose sono una delle band storiche del rock cinese, autori di un album –l’omonima prima uscita del 2003- destinato a sollevare molta attenzione, grazie alla contaminazione di sonorità che spaziavano da melodie tradizionali a un rock tutto assoli e possenti giri di basso.

Punto di convergenza del gruppo –che ha mutato costantemente formazione- è Liang Long, voce della band, in passato abituato a esibirsi in abiti tradizionali femminili, che abbinava a un pesante trucco facciale e a un timbro di voce stridente ed effeminato. L’impatto live dei Second Hand Rose è stato tale da guadagnarsi una schiera di fedelissimi con pochi eguali, mentre la loro formula musicale sembrò unica, come un punto di incontro tra rock e reminiscenze di opera tradizionale cinese.

Tuttavia, la loro esibizione allo Strawberry –comunque acclamatissima dal pubblico- è parsa priva della vecchia verve, spogliata di una presenza scenica che costituiva il marchio di fabbrica originario della band.

Lo spazio finale del festival è stato riservato a Xie Tianxiao, sempre più figura chiave del rock cinese, in grado di riempire stadi in Cina, vendere centinaia di migliaia di album e lasciar discutere. Finito dietro le sbarre negli ultimi mesi per detenzione di droghe leggere, amato e celebrato dai fan, criticato con eccessivo disprezzo dai detrattori (che gli rimproverano un certo opportunismo nel prendere in prestito e nell’imitare forme e iconografie musicali rock occidentali spacciandole per nuove), Xie Tianxiao sembra riassumere tutte le caratteristiche necessarie per diventare una vera rockstar made in China. La sua esibizione –anche in questo caso flagellata da problemi tecnici- è stata seguita e applaudita da migliaia di persone, offrendo tutte le energie che ci si sarebbe aspettati da un vero concerto rock, condito da contaminazioni con il reggae e, ancora una volta, con la musica tradizionale cinese, con la presenza sul palco di un guzheng.

La fine del concerto di Xie Tianxiao segna la fine della rassegna. Le luci calano d’improvviso sul sipario, lasciando gli spettatori a una lenta processione verso la via di casa, condita da file interminabili alle fermate dei bus e da una forsennata caccia ai pochi taxi disponibili. Niente nostalgie per l’avventura conclusa, l’appuntamento è per ottobre. In Cina, ormai si sa, è tempo di festival. Era più o meno quello che si diceva pochi giorni prima, in una conversazione con un amico cinese. Parlando dello spirito originale del folk cinese, di live e mercato, mi faceva notare come in Cina sia sempre più difficile imbattersi in festival che nascano tra la gente, consumandosi nel dialogo tra diversi musicisti, tra artisti e gente del luogo. Il richiamo al folklore è forte e l’industria del turismo si è impossessata di molti degli avvenimenti musicali tradizionali popolari.

Penso a cosa significhi oggi assistere a un festival di musica. In Cina non c’è dubbio che le esibizioni live siano contraddistinte da tecniche ancora limitate. Ma la transizione è a uno stato avanzato. Molte band preparate calcano i palchi, mentre a monte c’è sempre più spesso un’organizzazione, che offre uno spettacolo a un pubblico pagante, garantendo –o provando a garantire- qualità artistica, beni di consumo sotto forma di spot, jingle e design accattivanti, forme di intrattenimento. Dalle prime edizioni del MIDI a oggi ne è passata di acqua sotto i ponti. Dall’irraggiungibile campus di una MIDI school persa nella campagna ai bordi di Pechino si è arrivati ai bus organizzati in grado di portarti direttamente in loco su un comodo sedile con aria condizionata. Dallo show per i pochi, socialmente emarginati appassionati si è passati a un pubblico di massa in cerca di svago. Dieci anni fa la polizia interveniva per interrompere anzitempo le esibizioni, mentre i contadini locali erano ostili al rumore delle chitarre distorte; oggi ci sono anziani che osservano con aria incuriosita le esibizioni sui palchi durante la loro passeggiata quotidiana al parco; poliziotti che oltre le transenne imbracciano macchine fotografiche per rubare scatti agli artisti sul palco. L’assenza di spazi per esibirsi ha lasciato strada a tour estenuanti, con band che si esibiscono come robot negli oltre venti festival annuali sparsi per la Cina. La crisi del mercato discografico, problema tanto più sensibile nel mercato cinese falcidiato dalla pirateria, ha convinto oramai anche gli impresari cinesi a cercare entrate nel mercato delle esibizioni dal vivo. Nonostante le perdite che gli addetti ai lavori assicurano nella maggior parte dei casi, i festival di musica sono oramai parte di un’industria in grado di reggersi sugli sponsor privati e sui finanziamenti delle autorità locali, che mirano al ritorno di immagine, allo sviluppo turistico e alla promozione del commercio locale di zone altrimenti prive di attrattive. Ad eccezione del vecchio MIDI, che grazie agli introiti della MIDI school vanta un codice piuttosto selettivo degli sponsor, la direzione appare univoca, con la Modern Sky in primis a tirare il filo della caccia agli sponsor. Come già sentito altrove, il prezzo da pagare per la sopravvivenza e la professionalità di una scena musicale sembra essere una distrazione che ha tramutato la passione musicale in un pretesto pubblicitario. C’è sempre qualcuno disposto a chiedersi se gli organizzatori di festival abbiano mai valutato l’ipotesi di educare il pubblico all’ascolto di musica non commerciale, per spostare le gerarchie delle fonti di introito dagli sponsor ai botteghini. La questione non è nuova, in fondo è la solita –ma sempre più attuale- dissonante tensione tra libera creazione artistica e mercato in cerca di nuovo ossigeno.