The Leftover of the Day – Lui se ne parte, qui cambia tutto

In by Simone

Necessario strumento di autosupporto per digerire i fraintendimenti e le inquietudini quotidiane. Quando ogni sforzo di dialogo interculturale cede davanti alla bieca logica capo-dipendente.
1 marzo 2010, 12:02
Lo strano caso del manzo di Kobe (parte I)

“From now on you don’t understand Italian anymore”, gli dico appena scesi dall’autobus.
“In che senso?”
Lo guardo contrariata: “Come in che senso?”
“Ah”, e si dà una pacca in fronte, “Right, right, no more Italian”.

Cominciamo così la scenetta per fingerci turista giapponese e guida italiana. Tutto ciò per andare in una macelleria e fare una foto al Manzo di Kobe in esposizione – che è chiaramente finto – senza insospettire il macellaio.
Sono le 15.30 e il negozio è ancora chiuso, la nostra messinscena va avanti per un po’, con lui che interpreta il ruolo del giapponese tutto inchini e pronunce improbabili e io quello della guida di Roma. Tutto a uso e beneficio di noi stessi.
Nel frattempo abbiamo spiato tra le fessure della serranda e abbiamo visto che il tocco di carne con su scritto “Manzo di Kobe” è proprio lì davanti, in bella vista.
Presidiamo il marciapiede, prendiamo caffè su caffè, fumiamo sigarette, il macellaio non arriva, lui è tutto eccitato per questa storia del manzo di Kobe, io ho solo bisogno di andare al bagno. Ci appostiamo in punti diversi, fissiamo la serranda che non si solleva, lui si fa venire il cruccio che siamo troppo “riconoscibili”.

Dopo un’ora stiamo per rinunciare, percorriamo di nuovo la strada in senso opposto diretti verso la fermata dell’autobus, quando con la coda dell’occhio vedo un uomo con un camice ripiegato tra le mani e gli dico: “Maybe it’s our man”. In effetti è il macellaio.
Finalmente apre, entriamo nel negozio, è già arrivata prima di noi una donna, aspettiamo il nostro turno. Lui mi dice: “Relax”, perché sto saltellando da ferma, e mi dà una pacca delicata sulla spalla, io gli rispondo: “I’m not nervous”, mentre dovrei sussurrare: “Mi sto pisciando sotto”.

Infine tocca a noi. La fila è aumentata, mi sento un po’ cretina. Parlottiamo in inglese e per prima cosa ordino 6 etti di manzo di Kobe, poi chiedo al macellaio se lui può fare una foto. Quello è tutto fiero e lui comincia a scattare, io mi metto a chiacchierare col macellaio, da dove viene la carne, come si cucina, che differenza c’è con quello giapponese, tutte cose così, un po’ traducendo un po’ no. Le signore intorno a noi ci guardano incuriosite. Immagino una subitanea impennata di vendite del finto manzo.
Il macellaio si mette in posa con il coltello, quasi quasi mi spiace che lo stiamo ingannando.

Siamo fuori e lui mi dice: “Mission accomplished”, aggiunge che tutto è andato perfettamente e che ora possiamo passare alla fase 2 dell’inchiesta (ovvero occuparci di distributori e produttori). Prima della fase 2, c’è però la fase 1 e ½: ci spartiamo le pregiate, ancorché finte, fettine di manzo e ce le portiamo a casa per cena.

1 marzo 2010, 12:37
Lui se ne parte, qui cambia tutto

Tre anni e mezzo, quasi quattro. Per certi versi, una coppia consumata. Sono ormai in grado di soppesare i silenzi, di scoprire le educate bugie, di percepire l’umore del giorno. Ultimamente le cose vanno meglio. Ho smesso di chiedermi quando se ne andrà.
Proprio per questo pochi giorni fa hanno chiamato da Tokyo. Neanche me ne ero accorta. Mentre fino a poche settimane fa, ad ogni telefonata, sforzavo l’orecchio per estrapolare dalla sua conversazione qualche parola, mimetizzata tra quelle giapponesi, che mi facesse capire se c’erano novità o meno, negli ultimi tempi non mi ponevo più la domanda.

Lui è tornato nella stanza dicendomi: “That was THE call”. A fine maggio tornerà in Giappone.
Sono schizofrenica e lo sapevo: quasi mi viene da piangere. Vorrei abbracciarlo ma il muro fisico costruito mattone dopo mattone in questi anni è troppo imponente, gli dico solo: “Dont’ go away!”. Lui sorride malinconico, sposta lo sguardo e i suoi occhi mi sembrano lucidi.

L’argomento della sua partenza diventa normale.
Mi dice che vuole iscriversi all’Istituto Dante Alighieri in Giappone per non perdere la lingua, ma ha anche saputo da un’italiana che ha vissuto in Giappone che a Tokyo ci sono riunioni settimanali degli italiani lì residenti. Si incontrano in un ristorante. Lui vuole unirsi al gruppo e a buon diritto: in qualche modo è un po’ italiano anche lui, ormai.
Me lo immagino un po’ brillo, con la tazzina del saké in mano, che si rivolge a uno dei commensali per sanare uno dei suoi terribili dubbi linguistico-grammaticali: “Che differenza c’è tra periodo ipotetico della possibilità e periodo ipotetico dell’irrealtà?”

Non so lo sfortunato del caso cosa risponderebbe, ma io aggiungerei due esempi…

Ipotesi I: se lui non partisse, sarei più cattiva (possibilità)
Ipotesi II: se avessi capito che finivo per affezionarmi, sarei stata meno suscettibile (davvero periodo ipotetico dell’irrealtà!)

*Lavoro per un giornale giapponese, ma in Italia. Non parlo giapponese, ma passo le giornate a discutere con un giapponese: il mio capo. Ne ho cambiati diversi, eppure molte questioni sono rimaste le stesse. Ce n’è una, poi, a cui proprio non so dar risposta: che ci faccio qui? (senza scomodare Chatwin per carità)