The Leftover of the Day – Pranzi pesanti, reprise

In by Simone

Necessario strumento di autosupporto per digerire i fraintendimenti e le inquietudini quotidiane. Quando ogni sforzo di dialogo interculturale cede davanti alla bieca logica capo-dipendente.
20 novembre 2009, 12:01
L’insostenibile pesantezza del… pranzo, n. 2

Userò un’espressione abusata: l’occhio del ciclone. 
Come con quasi tutti i capi a qualsiasi latitudine, e quello con cui lavoro io non fa eccezione, si vive soggetti a un regime in cui l’unica legge reale e vincolante è l’umore del boss. Tanto più in un ufficio di poche persone, in cui il capo è uomo (e un po’ misogino, diciamolo, per storia personale e anche cultura: non lo dico io che il Giappone è messo male quanto a integrazione delle donne nel mercato del lavoro, lo dice l’
Ocse). Io ci sono già finita nell’occhio del ciclone. Più di una volta. Per futili motivi. Perché essere soggetti agli umori altrui, e se l’altrui ti lavora a pochi centimetri di distanza e non puoi chiuderti una porta alle spalle e mandare tutto affanculo, essere soggetti alle altrui fasi lunari, significa prima di tutto sapere che qualunque pretesto sarà buono per farti precipitare nel bulbo oscuro dell’occhio del ciclone. 
Un giorno, per esempio, siamo in macchina per andare a pranzo, mi squilla il cellulare, è già più di un anno che lavoriamo insieme, il mio cellulare è sempre lo stesso. Ma, appena attacco, mi fa: “Non credo di poter sopportare ulteriormente lo squillo del tuo cellulare”. Sbarro gli occhi, incredula, cerco di replicare: “é sempre la stessa suoneria”, ma lui è inamovibile: “I’m sick of it”. Fantastico: “I got it”, rispondo mentre abbasso al minimo la suoneria e penso che gli dà fastidio io possa avere conversazioni private in sua presenza. Anche perché lui non ha conversazioni private, non ha vita privata, ha solo una vita deprivata di affetti e amici. 
Ultimamente sono riuscita a tenermi ai margini dell’occhio del ciclone. Rischiando per brevi momenti. Imparando l’arte dei silenzi. Come fa lui. Ti punisce con i silenzi (che possono anche essere una benedizione…!). Ora faccio lo stesso, anche se non è nella mia indole. Tanto gli sono indispensabile. 
Non ci sono io nell’occhio del ciclone, ma A., un’altra persona che lavora qui con mansioni diverse dalle mie. 
Il pranzo rimane uno dei momenti topici. 
Qualche giorno fa. Siamo in un ristorante giapponese e mangiamo lo shabu shabu: è una sorta di rito collettivo, c’è una pentola al centro con il fuoco sotto e si cucina tutti insieme. Un po’ stressante al dunque e soprattutto un po’… shapu shapu.
A. viene trattata ormai come la ragazzina incapace e in questa occasione commette l’errore fatale di usare le bacchette sbagliate per mescolare il cibo nella pentola. Non era nemmeno chiarissimo quali avrebbe dovuto usare e ha provato a chiedere chiarimenti, ma lui si è subito alterato e, come si stesse discutendo di questioni fondamentali, l’ha bloccata dicendo: “Forget it. I want to enjoy the food” (perché vige un’aura speciale intorno al pranzo: mangiare è una delle poche cose che può renderlo felice). Finito lo straziante pasto, si è alzato di scatto, è uscito e, quando lo abbiamo raggiunto, si è defilato, accampando come scusa una misteriosa commissione da fare.
Posso sembrare visionaria ed esagerata, ma dopo 2 anni credo di avere le mie ragioni. Non aveva niente da fare (e lo dico per due motivi: 1. che se avesse avuto qualcosa da fare, mai avrebbe voluta farla da solo; 2. perché è pigro, e, se poteva risparmiarsela, lo avrebbe fatto, mandando una di noi due); era solo infastidito e voleva allontanarsi. 
Il reato di oggi è "lesa maestà delle bacchette".

*Lavoro per un giornale giapponese, ma in Italia. Non parlo giapponese, ma passo le giornate a discutere con un giapponese: il mio capo. Ne ho cambiati diversi, eppure molte questioni sono rimaste le stesse. Ce n’è una, poi, a cui proprio non so dar risposta: che ci faccio qui? (senza scomodare Chatwin per carità)