The Leftover of the Day – In Gita

In by Simone

Necessario strumento di autosupporto per digerire i fraintendimenti e le inquietudini quotidiane. Quando ogni sforzo di dialogo interculturale cede davanti alla bieca logica capo-dipendente.
16 novembre 2009, 18:29

Oggi gita fuori porta. Per intervistare V. Storaro, premio Oscar per la fotografia per diversi film. L’occasione è legata alla promozione del film (originariamente una miniserie tv) Caravaggio. Io ho provato a vederlo, ma sono crollata con gli occhi chiusi e la testa pesante dopo circa un quarto d’ora: la qualità mi sembrava troppo televisiva. I dialoghi agghiaccianti (Cose come: "E vedo la morte, la morte davanti a me", con la mano posata sulla tempia e la spuma del mare che bagna le gambe dell’eroe, vabbè). Ovviamente, lui è entrato in ufficio stamattina e la prima cosa che ha detto è stata: "Mi è piaciuto tantissimo, è anche troppo bello per un film tv". Vero o no, questo per dire che c’è sempre consonanza di gusti.

La distribuzione giapponese ha organizzato l’intervista con i giornalisti. Appuntamento in un hotel del centro per andare con pulmino. Arriviamo in anticipo. Prendiamo un caffè, io mi allontano per usare il bagno, quando torno lui si è unito al gruppo appena giunto degli organizzatori. Sono tre donne giapponesi, nemmeno mi guardano in faccia, mi siedo in ogni caso. Lui e un altro vanno a fumare, le tizie non so che si dicano, poi a un certo punto una mi sorride gelida e mi fa: "Hajimemasté". Immagino di essere stata presentata in qualche modo e replico: "Hajimemasté", ma subito aggiungo: "Sorry, I don’t speak Japanese…". Non faccio in tempo a continuare che si sono già girate dall’altra parte. Non so se imbarazzo o difficoltà, ma reagiscono come se avessi detto loro: "Scusate, c’ho la rogna". E’ una cosa che capita spesso con i giapponesi: sono gentilissimi ma anche indifferenti. Il confine tra timidezza e indifferenza può essere labile. Comunque.

Sul minibus, il conducente sta per impazzire. C’è traffico, Roma è bloccata per il summit Fao, l’interprete non fa altro che chiedere: "Quanto ci mettiamo?", e lui non fa altro che dire: "Non lo so, dipende dal traffico". La scentetta dura un bel po’, si è creato pure un problema con un altro giornalista che deve arrivare e l’interprete sfianca l’autista interrogandolo su tutte le possibili opzioni: "é meglio che prende un taxi fino a termini poi i mezzi pubblici? Meglio i mezzi fino a termini poi un taxi? C’è un treno? Qual è la stazione autobus più vicina? Lo passiamo a prendere?", e, ancora, "Quanto ci mettiamo?". Vedo la faccia dell’autista nello specchietto, commento con il mio capo, gli dico ridendo: "She doesn’t give up", lui mi fa il gesto di Bracciodiferro e mi dice, ridendo consapevole: "Noi giapponesi, we never give up". 

Arriviamo, infine. Storaro ci accoglie, chiede chi è Saouchi, poi, bonariamente ma non troppo, le dice: "Why did you send me so many mails? I stopped reading those mails. Why you were so insecure?". 
La tizia tace. Il mio capo sfodera di nuovo tutta la sua autocoscienza: "Siamo giapponesi".

*Lavoro per un giornale giapponese, ma in Italia. Non parlo giapponese, ma passo le giornate a discutere con un giapponese: il mio capo. Ne ho cambiati diversi, eppure molte questioni sono rimaste le stesse. Ce n’è una, poi, a cui proprio non so dar risposta: che ci faccio qui? (senza scomodare Chatwin per carità)