Terre rare. Prove di guerra commerciale

In by Simone

Nuove tensioni. Stati Uniti, Ue e Giappone accusano la Cina per le restrizioni imposte sull’esportazione di terre rare. Ma l’estrazione di questi essenziali metalli è estremamente inquinante. E Pechino è stanca di essere la miniera del mondo a prezzi scontati. Il 13 marzo Barack Obama ha annunciato che Stati Uniti, Unione Europea e Giappone hanno formalmente intentato causa alla Cina di fronte all’Organizzazione mondiale del commercio perché -sostengono- le quote, i dazi e le altre limitazioni imposte dal governo cinese sull’esportazione di terre rare non sarebbero legali. Il caso segue direttamente quello vinto a gennaio per l’esportazione di alcuni minerali rari.

La reazione di Pechino non si è fatta attendere. In una vignetta pubblicata dal China Daily si vede un diplomatico cinese mentre tratta con una controparte occidentale a due teste: l’una grida di rispettare l’ambiente, l’altra di esportare più terre rare (l’estrazione di questi materiali è, di fatto, un processo altamente inquinante).

Le terre rare sono metalli forse poco conosciuti dal grande pubblico ma estremamente diffusi in un gran numero di industrie. Sono indispensabili per produrre telefonini, computer, applicazioni elettroniche di vario genere e sono fondamentali per la guerra tecnologica del ventunesimo secolo, il che le rende un settore altamente strategico.

È necessario sbarazzarsi fin da subito da una confusione lessicale: i 17 metalli che fano parte di questa categoria  non sono poi così difficili da trovare.

Al contrario, sono piuttosto comuni, basti pensare che il cerio è il venticinquesimo elemento più comune della tavola periodica. Il problema non è la loro presenza, ma il degrado ambientale che solitamente accompagna i processi di estrazione e lavorazione.

Processi che, negli ultimi anni, sono stati sempre più delocalizzati verso paesi non occidentali, Cina in primis. Con il risultato che oggi il Dragone controlla il 90 per cento della produzione mondiale (nonostante detenga “solo” il 36 per cento  delle riserve planetarie).

Fino all’inizio del XXI secolo, gli Stati Uniti erano il principale produttore, ma negli ultimi anni l’estrazione è continuamente diminuita. La combinazione di avanzati standard ambientali nei Paesi industrializzati e bassi costi di produzione dei Paesi in via di sviluppo (negli anni Novanta la Cina praticava prezzi coi quali le industrie dei paesi industrializzati potevano solo sognare di poter competere), ha reso irresistibile la tentazione di andare all’estero.

E questo non sembrava dispiacere a nessuno, almeno finché i costi per il prodotto finito erano bassi. L’appetito mondiale per le terre rare –nessuno vuole farsi mancare un iPhone, al giorno d’oggi- ha continuato a crescere, ma i prezzi contenuti hanno tenuto il problema in secondo piano.

Le cose sono cambiate negli ultimi anni, con i costi in fase di decollo. Secondo quanto riportato dalla Lynas Corporation Ltd, un’azienda australiana del settore, il valore di alcuni metalli sarebbe cresciuto di sei volte in soli tre anni, dal 2009 a oggi.

Considerando anche le aspettative della domanda futura non stupisce che le preoccupazioni siano cresciute proporzionalmente.

Non sorprende neanche che le limitazioni cinesi sulle esportazioni  si siano tradotte in tensione politica. Riferendosi a questo caso, il Commissario europeo per il commercio Karel De Gucht ha dichiarato che “le restrizioni imposte dal governo cinese sull’esportazioni di terre rare ed altri prodotti violano le regole internazionali del commercio e devono essere rimosseQueste misure danneggiano produttori e consumatori  in Europa e nel mondo, inclusi le aziende produttrici di tecnologia d’avanguardia e del settore delle tecnologie ambientali”.

Il messaggio è essenzialmente lo stesso lanciato da Ron Kirk, il rappresentante per il commercio americano: “Dal momento che la Cina è il più grande produttore globale di questi elementi essenziali, le sue politiche sono dannose e mantengono i prezzi artificialmente alti all’estero e artificialmente bassi sul mercato nazionale. Questa dinamica crea un importante vantaggio per le imprese cinesi in competizione a discapito di quelle americane”.

Queste restrizioni  contribuiscono a mettere pressione sui produttori perché trasferiscano le loro attività, i loro posti di lavoro e le loro tecnologie in Cina” ha aggiunto.

La posizione cinese sull’argomento è chiara: l’estrazione delle terre rare ha posto al Paese un costo ambientale troppo elevato. La Cina non può continuare ad essere la “miniera del mondo” senza ottenerne dei vantaggi.

Liao Jinqiu, deputato dell’Assemblea nazionale del popolo e professore all’Università della finanza dello Jiangxi, ribadisce la linea del governo quando afferma che “[noi cinesi] dobbiamo ridurre lo sfruttamento delle terre rare per proteggere il nostro ambiente [..] è ora di porre fine all’era delle terre rare a prezzi economici”.

In realtà, è probabile che le preoccupazioni ambientali non salveranno la Cina, perché la causa è analoga a quella che Pechino ha perso solo pochi mesi fa. La migliore carta disposizione sarà probabilmente il fatto che, con la crisi economica in corso, le quote imposte non sono state nemmeno raggiunte.

In altre parole, i limiti imposti dal governo si sono rivelati insignificanti. Shen Danyang, portavoce del ministero degli esteri, ha dichiarato che questa situazione “dimostra che la Cina è un membro responsabile dell’Omc”.

E, in ogni evenienza, “la Cina ha altri metodi per regolare le terre rare e la loro esportazione, per esempio l’imposizione di una tassa sulle risorse o di una per la protezione ambientale” annuncia sibillino il Global Times.

Al di là di questo specifico problema, resta la situazione generale del commercio internazionale, che registra crescenti pressioni protezionistiche.

Recente è stato il caso delle tariffe imposte dall’amministrazione americana sull’importazione di pannelli solari dalla Cina. Modeste, ma pur sempre misure per combattere l’export cinese.

E già nel 2009 aveva fatto notizia la tariffa del 35 per cento voluta dall’America sull’importazione di pneumatici cinesi (l’appello di Pechino all’Omc era fallito).

Le elezioni presidenziali americane sono in arrivo e il prossimo autunno avrà luogo il cambio di leadership ai vertici cinesi. Se si aggiunge che l’opinione pubblica americana è sempre più preoccupata dall’ascesa del Dragone, ben si capisce perché  l’amministrazione Obama non voglia fare la parte del coniglio. Mostrarsi forti con i rivali – specialmente se appartengono alla categoria dei bad guys –  è un must politico per la prima potenza mondiale.

Non è chiaro, però, se si tratti solo di promesse da campagna elettorale o se non siamo di fronte a un parziale cambiamento di rotta delle politiche commerciali globali. Per capirlo occorrerà aspettare qualche anno. Intanto, un indizio dovrebbe arrivare proprio dalla disputa sulle terre rare.

[Foto credit: earthtimes.org]

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*Michele Penna è nato il 27 novembre 1987. Nel 2009 si laurea in Scienze della Comunicazione e delle Relazioni Istituzionali con una tesi sulle riforme economiche nella Cina degli anni ‘80-’90. L’anno seguente si trasferisce a Pechino dove studia lingua cinese e frequenta un master in relazioni internazionali presso l’Università di Pechino. Collabora con Il Caffè Geopolitico, per il quale scrive di politica asiatica.