Tensione nel Partito. Alcune ipotesi

In by Simone

Manca poco alla transizione della leadership e le lotte interne continuano. Da una parte i riformisti di Wen Jiabao, dall’altra i conservatori di Bo Xilai. E intanto un nuovo report ripropone l’urgenza di rinnovare l’economia e il sistema politico. Pena la crescita e il benessere del paese. Alla fine dell’anno la Cina si appresta a compiere una decennale transizione della sua leadership, ridefinendo quello che è lo scacchiere del potere all’interno del Partito comunista e del governo.

Nel corso degli ultimi mesi sono emersi segnali di una lotta accesa tra i principali candidati alle cariche più importanti della nomenklatura, rendendo sempre più esplicite le divisioni interne al partito.

Gli analisti politici tendono a delineare due fazioni principali: quelli favorevoli a continuare la via delle riforme quale unica possibile soluzione ai problemi e le sfide che la Cina si appresta ad affrontare, e quelli che invece, rifacendosi agli ideali originali del Partito comunista, si oppongono a tali riforme.

Per quanto sia difficile delineare con precisione i confini dei due "schieramenti", leggendo tra le righe delle dichiarazioni ufficiali è possibile vagamente individuare le due aree, anche se esistono al contempo legami trasversali che complicano il quadro (come ad esempio i presunti legami tra i membri della cosiddetta "fazione di Shanghai", ossia leader del partito che hanno fatto carrierra grazie al sostegno di Jiang Zemin o di quelli presumibilmente esistenti all’interno della fazione dei cosiddetti "principini", i figli dei vecchi potenti leader del Partito comunista).   

La corrente riformista è appoggiata da quelli che attualmentente sono i due principali esponenti del partito e del governo cinese: il presidente Hu Jintao ed il premier Wen Jiabo.

A questi si aggiungono i due membri del Comitato permanente del Politburo – che probabilmente li sostituiranno alla fine del loro mandato – Xi Jinping, presidente in pectore e Li Keqiang, probabile futuro premier.

Della corrente riformista fa parte anche l’attuale segretario del partito della provincia del Guandong, Wang Yang, salito alla ribalta negli ultimi mesi per le sue tendenze "liberali" nella gestione del caso di Wukan e principale fautore del cosidetto "modello del Guangdong".

Vi è poi il vice premier, Wang Qishan, che sponsorizza la riforma del settore finanziario e bancario del paese.

La fazione contraria alle riforme comprende l’ex segretario del partito di Chongqing, il deus ex machina del "modello di Chongqing" Bo Xilai – negli ultimi mesi al centro di un incidente politico innescato dal suo braccio destro Wang Lijun, che oltre a costargli l’incarico ha verosimilmente messo fine ad ogni sua ambizione politica.

E probabilmente il suo sostituto provvisorio Zhang Dejian, oltre all’attuale ministro della Pubblica Sicurezza Zhou Yongkang, che è anche membro del Comitato Permanente del Politburo. 

Le riforme
Sebbene il prossimo governo non sia ancora ufficialmente formato e la corsa alle sedie del Comitato Permanente sia ancora aperta, le linee guida per la strategia che la Cina adotterà nei prossimi 20 anni sono già pronte.

A delinearle è stato un team composto da economisti ed esperti della Banca Mondiale e un think thank  del governo cinese.

Il team ha condotto un’analisi della situazione economica attuale e delle prospettive future della Cina, tenendo conto del ruolo che la Cina occupa nel contesto dell’economia globale e delle influenze di quest’ultima sull’economia cinese stessa.

I risultati di questo studio sono stati inseriti nel rapporto China 2030 rilasciato recentemente.

Il rapporto riconosce gli "impressionanti" risultati ottenuti negli ultimi 30 anni, ma avverte che senza adeguate riforme strutturali il paese non riuscirà a mantenere un ritmo di crescita sufficientemente rapida, considerata una condizione sine qua non per continuare a creare nuovi posti di lavoro, che a loro volta garantiscono l’ordine sociale.

Il rapporto pone anche l’accento sul fatto che una crescita rapida come quella realizzata fino ad oggi dalla Cina non è sostenibile per motivi di natura ambientale e sociale.

Esso sottolinea infine la necessità di una maggiore integrazione della Cina a livello internazionale, sia per quanto riguarda il suo ruolo all’interno delle istituzioni multilaterali, sia per quel che concerne i mercati finanziari.

Uno dei punti centrali della ricetta proposta dal team del programma China 2030 consiste essenzialmente nel ridurre la presenza e l’influenza dello stato all’interno del settore economico e finanziario.

Nello specifico il rapporto suggerisce di "ridefinire il ruolo del governo; riformare e ristrutturare le imprese e le banche statali; sviluppare il settore privato; promuovere la competizione; promuovere ulteriormente la riforma dei mercati della terra, del lavoro e di quello finanziario".

Per quel che riguarda la riforma del settore finanziario e del ruolo dello stato all’interno di esso, China 2030 fa eco ad un altro rapporto congiuntamente realizzato dalla stessa Banca Mondiale e dal FMI, risalente a giugno del 2011.

Si tratta del “People’s Republica of China -Financial System Stability Assessment”, nel quale FMI e Banca mondiale suggeriscono alla Cina in particolare di "approfondire l’orientamento commerciale delle banche e delle altre società finanziarie", di "passare a strumenti maggiormente basati sul mercato per influenzare le condizioni monetarie e finanziarie" e di "sviluppare ulteriormente i mercati finanziari e gli strumenti per approfondire e rafforzare il sistema finanziario".       

Chi si oppone alle riforme?
Le riforme "suggerite" vanno a danneggiare diversi interessi costituiti. In particolare quelli delle grandi banche -a cui recentemente è stato fatto appello di prendere esempio da Lei Feng, il mitico eroe rivoluzionario noto soprattutto per il senso del sacrifico – e delle compagnie statali che occupano una posizione dominante in settori chiave dell’economia.

Un ruolo meno forte dello Stato danneggia verosimilmente anche l’esercito. Il People’s Liberation Army Dainuova sinistra, utopily ed il China Daily hanno pubblicato una serie di editoriali a partire da gennaio dove si richiede all’esercito di rimanere fedele al segretario generale del partito Hu Jintao.

A questi si aggiunge probabilmente chi è riuscito ad arricchirsi approfittando del suo ruolo all’interno del Partito. Questi non sono però gli unici potenziali oppositori del programma Cina 2030.

Vi è infatti una parte degli intellettuali cinesi, genericamente indicata come "nuova sinistra", che tradizionalmente si oppone alle riforme di stampo neoliberista adottate negli ultimi 30 anni.

Uno dei principali esponenti della "nuova sinistra" è il professore della Tsinghua University Wang Hui – autore di diversi libri in cui affronta la tematica del neoliberismo cinese – che nell’introduzione del libro Talkin’ China di Angela Pascucci (Manifestolibri, 2008) così sintetizza l’avanzata del neoliberismo in Cina:

"Una delle parole d’ordine del neoliberismo è "lo Stato si ritiri" (guojia tuichu), o anche "governo minimo"(xiao zhengfu): questi slogan godono di molto favore a causa dell’insofferenza nei confronti della coercizione e della violenza statali.

[…] nel contesto cinese, "il ritiro dello Stato" indica soprattutto la privatizzazione su larga scala delle imprese statali, laddove il maggior promotore di questo processo è lo Stato stesso.

Nella maggior parte dei casi, la privatizzazione consiste in una redistribuzione delle risorse e questo riassetto del potere è gestito dai singoli governi locali, manipolato in modo corrotto (falsificazione di bilanci) dai dirigenti delle aziende originariamente statali.

Così, da un lato, assistiamo a un aumento della corruzione, allo scambio fra potere e denaro e a un forte deficit delle finanze pubbliche; dall’altro vengono lesi gli interessi degli operai e un numero significativo di persone perde il posto di lavoro.

In questo senso "il ritiro dello Stato" altro non è che il ritirarsi dello Stato dalle sue responsabilità e la ritirata è diretta dal governo medesimo, tramite le sue direttive politiche". 

Vi è poi una parte più radicale della "nuova sinistra" rappresentata dal gruppo di giovani intellettuali filo-maoisti di Utopia.Il gruppo si oppone non solo alle politiche neoriberiste ma più in generale al capitalismo.

I membri di Utopia considerano infatti la politica di riforma e apertura iniziata da Deng Xiaoping alla fine degli anni Settanta come una reistaurazione del capitalismo in Cina e auspicano il superamento della rimozione della Rivoluzione Culturale imposto dalla destra, considerandolo come l’unica possibile via per la formazione di una opposizione.

Sulle pagine del loro blog – oltre a numerosi articoli su argomenti che spaziano dall’interpretazione del marxismo alla democrazia, per arrivare ad articoli di critica letteraria o di analisi dell’ultima crisi finanzairia globale – fanno spesso appello alla necessità di una dura campagna contro la corruzione.

Bo Xilai, il modello di Chong Qing ed il programma "China 2030"
Fatta eccezione per l’avversione al capitalismo – in molti dipingono Bo Xilai come un potente affarista, sufficientemente ricco da poter mandare il figlio Bo Guagua a studiare nelle migliori scuole ed università del Regno Unito, senza contare che è stato uno dei principali fautori degli accordi commerciali con l’Europa quando era ministro del Commercio – il "modello di Chongqing" promosso da Bo Xilai sembra fortemente ispirarsi alle idee promosse dal gruppo Utopia, pur rappresentandone di fatto una deriva populista.

Esso si è infatti distinto per un revival della propaganda dell’era maosita e per una dura campagna alla corruzione.

Per quanto Bo Xilai non abbia mai espresso un parere diretto sul programma China 2030, il modello da lui sponsorizzato è una prova più che sufficiente della mancata approvazione, in particolare perchè è uno strenuo difensore di uno ruolo forte per lo stato.

Bo Xilai, politicamente in ascesa, capace di conquistarsi l’appoggio di una buona parte degli intellettuali di sinistra, grazie alla sua retorica populista, e che ha forti legami con parte dell’Esercito di liberazione deve essere stato abbastanza scomodo per l’agenda dell’establishment cinese.

Difficile stabilire se ciò sia in qualche modo connesso con la sua fulminea caduta, ma da fuori sembra essere un "movente" abbastanza plausibile.

Movente parzialmente confermato da indiscrezioni rivelate al Financial Times da persone a conoscenza dei fatti che – sempre secondo il Financial Times – avrebbero stretti legami con i vertici cinesi.

Secondo loro, la teoria più convincente per spiegare l’incidente dell’ex capo della polizia di Chongqing, Wang Lijun, è che i rivali politici del signor Bo avevano iniziato un’indagine sul vice sindaco di Chongqing che avrebbe poi tagliato fuori dai giochi il suo mentore, Bo Xilai.

Il 14 marzo, un giorno prima del lincenziamento di Bo Xilai, il premier Wen Jiabao ha dichiarato nel corso di una conferenza: "l’attuale comitato del partito e il governo di Chongqing devono seriamente riflettere sull’incidente di Wang Lijun e imparare la lezione da questo incidente".

In un passaggio successivo, il premier ha inoltre sottolineato l’importanza di riformare il sistema politico e di leadership cinese, avvisando che senza tali riforme la Cina potrebbe affrontare un’altra tragedia come la Rivoluzione culturale.

In sintesi, le due alternative possibili paventate dal premier sembrano essere o riforme o caos. Quindi, le riforme si faranno. E chi si oppone? Farà bene ad imparare la lezione di Chongqing.

[Foto Credits: cartoonstock.com]

* Piero Cellarosi, sinologo e “sinofilo”, è un esperto in sviluppo umano e sicurezza alimentare. Ha lavorato in un progetto finanziato dall’International Fund for Rural Development (Ifad) delle Nazioni Unite dal 2008 al 2009 come Project Adviser e Food Security consultant nel corso delle fasi svolte in Cina di design, sviluppo e testing del Multidimensional Poverty Assessment Tool. Ama la filosofia e le arti marziali cinesi.