nerd

Tecnocina: Il capo dei nerd

In Cina, Cultura by Redazione

Per gentile concessione di add editore riproponiamo un estratto di Tecnocina, il libro in cui Simone Pieranni ripercorre la storia della Repubblica popolare dal 1949 fino ai giorni nostri, attraverso un intreccio di vicende affascinanti mai narrate prima al cui centro spiccano le storie di donne e uomini finora ignoti.

«I nerd al potere (1989-2001)»

Nel 1989, nel periodo più turbolento e decisivo per la sopravvivenza stessa del Partito comunista cinese, il vecchio Deng tira fuori dal cilindro Jiang Zemin (1926-2022) e lo nomina segretario del Partito comunista. Le riforme di Deng avevano provocato scossoni economici e sociali, culminati nelle proteste che saranno represse nel sangue nel giugno di quell’anno. Jiang arriva al vertice del Partito a sorpresa: Deng desiderava mettere a capo del Paese un funzionario che, pur avendo già percorso tappe importanti all’interno della nomenklatura (come ad esempio la carica di sindaco e segretario del Partito a Shanghai) risultasse però abbastanza debole in fatto di alleanze all’interno del Partito. Jiang gli sarà riconoscente, e sarà proprio lui a sistematizzare il pensiero del suo predecessore elevandolo a teoria all’interno della Costituzione del Partito, dove si legge che la teoria di Deng «è un prodotto dell’integrazione della teoria di base del marxismo-leninismo con la pratica della Cina moderna e le caratteristiche dell’era attuale, rappresenta l’eredità e lo sviluppo del pensiero di Mao Zedong nelle nuove condizioni storiche, una nuova fase dello sviluppo del marxismo in Cina, il marxismo della Cina moderna e la cristallizzazione della saggezza collettiva del Pcc, guidando in maniera costante la causa della modernizzazione socialista in Cina».

La nuova fase preparava l’inserimento all’interno della Costituzione del Partito del contributo di Jiang Zemin, ovvero le tre rappresentatività, ma questo pensiero, come scrive Marina Miranda in Ideologia e Riforma politica in Cina, «era considerato ufficialmente il contributo di Jiang secondo il quale era necessario “liberare il pensiero dai ceppi di nozioni e modelli antiquati e superati, dalle interpretazioni errate e dogmatiche del marxismo, dalle catene del soggettivismo e della metafisica. Nell’attenersi ai princìpi basilari del marxismo bisogna aggiungere a essi nuovi contributi teorici. Nello sviluppare la tradizione rivoluzionaria, bisogna acquisire nuove esperienze”. Avvalorandone in tal modo l’importanza, questa elaborazione dottrinale era presentata come continuazione e sviluppo del marxismo-leninismo, del pensiero di Mao e della teoria di Deng». Jiang, in pratica, vive nel periodo durante il quale i vari Zhang Ruimin e Ren Zhengfei nascono e prosperano, nell’epoca di Internet: era fondamentale un aggiornamento del Partito alla nuova realtà sociale che si trovava di fronte, affinché diventasse possibile incorporarla (e guidarla) anziché soccombere.

Le tre rappresentatività sono così espresse nello Statuto: «Il Partito comunista cinese è l’avanguardia sia della classe operaia sia del popolo cinese e delle sue (diverse) nazionalità. Esso è il centro direttivo per la realizzazione del socialismo con caratteristiche cinesi e rappresenta le esigenze di sviluppo delle forze produttive più avanzate, gli orientamenti della cultura più avanzata e gli interessi fondamentali di larghissima parte della popolazione». In breve potremmo dire che Jiang assesta il colpo definitivo alla lotta di classe da parte del Partito comunista: se Mao aveva parlato di “dittatura democratica” per intendere chiaramente che la Cina sarebbe stata democratica per il proletariato ma non così democratica per i nemici del popolo, se negli anni Ottanta la lotta di classe sfuma in un concetto più avanzato di “popolo” in quanto “padrone del suo destino”, ora siamo al riconoscimento che in Cina tutto è diventato molto più complesso. «È particolarmente significativo», scrive Miranda «il riferimento alle forze produttive più avanzate e alla cultura più avanzata, cioè ai nuovi strati emergenti nei più dinamici settori dell’economia e all’apporto di tecnologia e know-how necessari per il processo di modernizzazione in atto.» Il Partito si prepara ad accogliere tra i suoi membri «nuovi gruppi e nuovi settori che erano emersi nella società, nuove occupazioni e nuove figure professionali».

Le tre rappresentatività colgono dunque una Cina scevra «da qualsiasi principio legato alla lotta di classe», perché le forze produttive più avanzate erano sia gli operai, sia i manager, sia gli imprenditori. E insieme a loro – «la cultura più avanzata» – ci sarebbe stato spazio anche per gli intellettuali. Jiang in questo modo prepara il Partito al camaleontismo necessario per affrontare la globalizzazione, indirizzandone l’appartenenza non più a una parte del popolo, ma alla sua totalità, fornendo così un’arma in più alla rappresentazione del Partito come collante nazionale (e in seguito riagganciato alla tradizione più antica della storia cinese). È un passaggio che risponde a più esigenze: sicuramente ha contato quanto accaduto nel 1989, con il conseguente tentativo di irretire gli intellettuali all’interno del Partito, e hanno pesato le grandi trasformazioni in atto, che obbligavano il Partito a tentare di governarle anziché subirle. Questo scostamento dell’identità del Partito, come vedremo, avrà molteplici esempi: a sostenere il Partito nel controllo di Internet, ad esempio, non saranno i proletari impegnati a dare vita alla «fabbrica del mondo» ma proprio quegli imprenditori, i padroni, portati all’interno del Partito.

Questa mossa di Jiang permetterà al Partito comunista di rimanere al centro della scena politica, sociale ed economica cinese e lo preparerà a superare indenne il post 1989 e ad adeguarsi alla Cina della crescita a doppia cifra degli anni Duemila. Come scrive Marina Miranda, «il concetto delle tre rappresentatività veniva pubblicizzato come il nucleo di una ricostruzione ideologica della legittimità del Pcc in quanto Partito al potere: tale legittimità non veniva rivendicata in riferimento alla lunga storia rivoluzionaria e ai fermi dogmi ideologici, ma, al contrario, enfatizzandone l’innovazione e la vitalità derivante dalla sua capacità di adattarsi a un ambiente in continua evoluzione».

Forse solo Jiang Zemin, con tutta la pazienza di ingegnere elettrico, poteva mettere insieme uno dopo l’altro i tasselli di questa conversione storica. Ma Jiang aveva anche l’esuberanza del nerd, dell’hacker che vuole aprire le cose e vedere come sono fatte, che unisce al pragmatismo una straordinaria capacità visionaria, e Jiang è infatti il leader cinese che più è sembrato in sintonia con la sua epoca. Il suo background tecnologico spinse ancora più in avanti la scienza e la tecnologia in Cina, e si dimostrò coraggioso anche nella vita pubblica, come quando si fece intervistare per un’ora dalla tv americana senza voler sapere prima le domande e rispondendo anche a questa: «Lei si considera un dittatore?» (ovviamente la risposta fu no). Come abbiamo visto, Jiang arrivò al potere a sorpresa, direttamente dalla carica di segretario del Partito a Shanghai, poco prima della “chiamata” di Deng, quando – stando al suo biografo – stava pensando di ritirarsi ed era concentrato su tutt’altro, una traduzione in russo di un suo testo tecnico.

Su «Foreign Policy» in un coccodrillo scritto a seguito della morte di Jiang, lo studioso del Partito Victor Shih sostiene che Jiang, cresciuto come intellettuale, ebbe fortuna: «Per colmare una disperata carenza di talenti, il Pcc ha immediatamente spinto i diplomati del college e perfino delle scuole superiori che si erano uniti al Partito prima del 1949 a posizioni apicali. Jiang, che si era laureato in ingegneria presso la rinomata Università di Jiaotong, divenne capo ingegnere presso una fabbrica di ghiaccioli di Shanghai dove aveva lavorato prima del 1949». Ma la vera fortuna di Jiang fu una tragedia, ovvero la morte di suo zio, martire della rivoluzione comunista. «Jiang Zemin, divenne il più grande beneficiario del suo status di martire.»