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Sustainalytics – L’eterno ritorno del carbone in Asia

In Sociale e Ambiente, Sustanalytics by Sabrina Moles

Quella tra carbone ed economie asiatiche è una relazione difficile, ma percepita come necessaria. Come sta cambiando e cosa raccontano le ultime previsioni su una delle fonti fossili più inquinanti al mondo, e altre notizie. La nuova puntata con la rubrica dedicata ad ambiente, energia e cambiamenti climatici in Asia

Il carbone sta tornando. Anzi, non se n’è mai andato. Almeno in Asia, dove da vent’anni si concentra il 90% dell’energia ottenuta con il carbone al mondo. La crisi delle componenti chiave per la produzione delle tecnologie rinnovabili e l’incertezza degli approvvigionamenti di gas dalla Russia spingono anche i paesi più avanzati verso una risorsa percepita come ampiamente disponibile e sicura. Anche in Europa, se guardiamo a quanto sta accadendo con la riapertura dei giacimenti tedeschi come quello di Lüzerath

L’Indonesia, uno dei principali esportatori di carbone asiatici, ha pubblicato lunedì 30 gennaio le previsioni per il 2023: almeno 518 milioni di tonnellate, un aumento del 18,5% in solo un anno. E senza valutare gli imprevisti: il boom delle vendite all’estero del 2022, di per sé importante, era stato rallentato da un blocco temporaneo voluto da Giacarta. “Si prevede che i prezzi del carbone reggeranno ancora bene nel 2023 a causa dei problemi [tra domanda e offerta, ndr.] sui mercati globali che necessitano ancora di un certo supporto da parte del carbone”, ha spiegato il ministro per l’Energia e le risorse minerarie Arifin Tasrif. Tra i principali importatori del carbone indonesiano, come rileva la società di consulenze Kpler: Taiwan, Corea del Sud, Filippine e India. In calo, invece, le esportazioni verso uno dei principali acquirenti, la Cina.

Il carbone non ha mai lasciato l’Asia, e potrebbe rimanerci ancora a lungo. Già prima della pandemia le analisi dell’International Energy Agency (Iea) parlavano di una crescita costante, determinata da una maggiore domanda energetica e dagli ancora scarsi investimenti in infrastrutture meno inquinanti. Le promesse dei paesi asiatici per la riduzione delle emissioni climalteranti contrastano con le capacità sul campo: mancano esperti, tecnologie, finanziamenti, infrastrutture. Si prevede, inoltre, che l’Asia rappresenterà uno dei continenti più colpiti dai cambiamenti climatici. Tra questi, l’aumento delle ondate di calore estremo, con 1,2 miliardi di persone situate in aree con 100% di probabilità che ciò si verifichi su base annuale. E le alluvioni, che potrebbero danneggiare ogni anno almeno il 75% del capitale naturale, architettonico e sociale. Per la Asian Development Bank (Adb) nella sola Indonesia si trovano 17 mila isole ad alto rischio, complici la bassa altitudine e la frequenza di terremoti e tsunami.

Un paese ancora più colpito dall’emergenza climatica è il Bangladesh. Anche qui, però, la soluzione per portare avanti l’economia ricade sulla fonte energetica considerata più economica, sicura e accessibile. È un un circolo vizioso, dove le emissioni prodotte dal consumo delle fossili sono alla base degli stessi problemi che oggi fanno perdere miliardi di dollari di Pil al paese (fino al 2% del totale ogni anno entro il 2050, secondo Adb). Il consumo non è destinato a calare, ma sta aumentando, secondo i dati della compagnia di consulenze Global Data. Alle spalle, soprattutto un settore tessile che traina le esportazioni e attira investimenti dall’estero.

Per gli attivisti in India, invece, il problema della dipendenza dal carbone ha un nome preciso: Gautam Adani. L’impero del miliardario indiano non sta vivendo un momento facile perché con l’aumento degli investitori stranieri è arrivata anche la denuncia di pratiche commerciali e finanziarie illecite – fattore che sta rallentando l’acquisizione dei titoli delle sue società. Uno dei core business è l’industria del carbone, che oggi è nel mirino della campagna di SumOfUs. L’associazione ha scritto ai principali finanziatori di Adani per sollevare le contraddizioni delle attività del gruppo, che da un lato continua ad avere enormi ricavi dal carbone, mentre dall’altro promuove la vendita dei suoi green bond. “È inconcepibile che i principali finanziatori continuino a investire nelle obbligazioni verdi del gruppo Adani, che ha dimostrato di violare tutti e tre i pilastri Esg [Environmental, Social e Governance, ndr.] con l’espansione del carbone, le violazioni dei diritti umani e ora la frode”, ha dichiarato Alice Delemare, coordinatrice dell’iniziativa Toxic Bonds (che coordina iniziative come quella di SumOfUs).

La Cina ha consumato meno petrolio e gas nel 2022

Venerdì 27 gennaio la Iea ha pubblicato gli ultimi dati sul consumo delle fonti fossili in Cina, rivelando un netto calo nei consumi domestici di petrolio e gas. È la prima volta che accade dal 1990. Il presidente dell’agenzia, Fatih Birol, avverte però che si potrebbe trattare di un caso unico dovuto ai continui rallentamenti nel comparto produttivo legati alla politica “zero Covid”. Il dato rimane interessante per analizzare l’impatto della Cina sui mercati globali, e di quanto quel -3% cinese faccia la differenza a livello di consumo totale di petrolio e gas. Secondo gli analisti, infatti, il ritorno dei consumi cinesi farà salire nuovamente la domanda di petrolio mondiale del 50% nel corso del 2023. Nel frattempo, l’attenzione si è spostata soprattutto sull’autonomia: la produzione domestica di carbone ha toccato un nuovo picco storico lo scorso novembre. Ancora una volta: prima sicuri, poi verdi.

Il Myanmar torna a puntare sulle esportazioni di gas naturale grazie alla Cina

Anche più a sud di Pechino non ci sono dubbi sul potenziale delle risorse domestiche. Secondo i dati di Betv Business News, Naypyidaw lo scorso anno ha venduto alla Cina il proprio gas naturale per un valore di 1,43 miliardi di dollari. A favorire le transazioni sono le infrastrutture costruite grazie ai finanziamenti cinesi lungo il confine tra i due paesi, e che rientrano nella strategia di approvvigionamento energetico cinese per evitare il collo di bottiglia delle importazioni che passano lungo lo stretto di Malacca. Il principale produttore di gas naturale in Myanmar è lo stato del Rakhine che, denuncia la testata Burma News International, rimane tra i più poveri del paese.

Maldive, il presidente punta al secondo mandato – e cosa significa per l’ambiente

L’attuale presidente delle Maldive Mohamed Solih ha vinto le primarie del Maldivian Democratic Party (Mdp) e punta ora a ricandidarsi in occasione delle presidenziali di settembre 2023. Al di fuori del dibattito sulla bontà dei risultati avviato dallo sfidante ed ex presidente Mohamed Nasheed, è importante ricordare le sfide ambientali che l’arcipelago sta vivendo. Come altre realtà insulari, anche le Maldive devono fare i conti con il problema dei cambiamenti climatici. L’80% dei suoi territori si trova a solo un metro dal livello del mare e come verrà affrontato il conto alla rovescia verso le conseguenze peggiori della crisi climatica darà determinante per il futuro dei suoi abitati – se non dell’esistenza del paese stesso. Negli anni i politici maldiviani hanno denunciato più volte la vulenerabilità dell’arcipelago e le responsabilità delle economie avanzate. In un recente discorso al Parlamento dei giovani dello Sri Lanka Nasheed aveva ribadito l’opinione di Malè sulla crisi in corso e le sue derivazioni finanziarie, sociali e politiche. “Credo anche che in tanti modi il nostro debito sia legato al cambiamento climatico. Abbiamo tutti bisogno di infrastrutture. E dobbiamo tutti indebitarci”.

Giappone, incentivi per chi installa pannelli solari

Tokyo alzerà le ricompense per chi trasmette energia elettrica alla rete nazionale attraverso l’installazione di impianti fotovoltaici. Lo promette il ministero dell’Economia nipponico, che valuta un aumento tra il 20% e il 30% maggiore rispetto ai prezzi precedenti. Le cosiddette tariffe feed-in stavano diminuendo a fronte di una spesa decrescente per le tecnologie solari ma il governo sembra propenso a sostenere il settore per incentivare l’installazione di nuovi impianti. A spingere la proposta, suggerisce Nikkei Asian Review, anche la necessità di liberarsi dalla dipendenza dalle importazioni di fossili. Con il calo della domanda in Cina, infatti, il Giappone si è classificato come il principale importatore di petrolio e gas globale.