Entro il 2020 la Cina diventerà una «società votata all’innovazione». Sfogliando il Rapporto 2009 sullo stato ricerca globale, curato da Thomson Reuters, l’ambizioso progetto lanciato nel 2006 dal presidente Hu Jintao sembra sempre più alla portata del gigante asiatico. Già oggi Pechino occupa il secondo posto, dietro gli Stati Uniti, per numero di studi scientifici pubblicati e punta dritta al primato.
A stupire gli osservatori è soprattutto l’aumento esponenziale delle pubblicazioni. Il rapporto Thomson Reuters prende in esame le pubblicazioni apparse in oltre 10 mila riviste di tutto il mondo, mettendo a confronto le prestazioni dei paesi che compongono il cosiddetto BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) negli ultimi trent’anni. E rispetto al 1981 le pubblicazioni cinesi sono aumentate di ben 64 volte, un tasso di crescita tale che potrebbe portare il paese a diventare la superpotenza mondiale nel campo della ricerca entro il 2020. Un incremento ancora più significato se si paragonano le 20 mila pubblicazioni del 1998 con le 112 mila del 2008. «Le recenti performance della Cina hanno superato anche le più rosee aspettative degli ultimi quattro o cinque anni» spiega, intervistato dal Financial Times, James Wildson della Royal Society di Londra. Un successo che poggia su tre punti fondamentali: investimenti governativi, rapporto tra scienza e mondo dell’industria, capacità di Pechino nel porre un freno alla «fuga dei cervelli».
I dati, resi noti a fine dicembre dall’Istituto nazionale di statistica del ministero di Scienza e tecnologia e del ministero delle Finanze, evidenziano un costante aumento dei fondi destinati alla ricerca scientifica e sperimentale. Se nel 2008 Pechino ha stanziato nel settore l’1,54% del PIL (+0,10% rispetto al 2007) entro il 2010 i fondi per lo sviluppo scientifico e tecnologico dovrebbero toccare il 2% del prodotto interno lordo. Se poi si analizza più a fondo quali sono i campi di ricerca prevalenti nel Paese di mezzo salta subito all’occhio la relazione tra ricerca scientifica e settore industriale.
In cima alla classifica delle pubblicazioni made in China figurano infatti gli studi nel campo della scienza dei materiali, della chimica e della fisica. Campi di ricerca strettamente legati all’industria pesante e al settore manifatturiero, ossia le basi dell’economia cinese. Il vero punto di forza della ricerca cinese sembra essere la capacità del paese nel riattrarre a sé le migliori menti, strappandogli all’abbraccio del mondo accademico americano. La possibilità di studiare negli Stati Uniti e in Occidente esercita su molti giovani studiosi cinesi una grande attrattiva, ma sono sempre di più quelli che, dopo aver acquisito capacità e notorietà in America, decidono di tornare in patria, Un caso eclatante è rappresentato dal professor Shi Yigong, luminare della biologia molecolare. Naturalizzato statunitense e residente negli Stati Uniti da diciotto anni, nel 2008 il professor Shi ha stupito tutti con la decisione di lasciare il suo posto all’università di Princeton, rinunciando ad un assegno da 10 milioni di dollari, per far ritorno in Cina e diventare preside della facoltà di scienza della vita dell’università Tsinghua di Pechino.
«Sento di dovere qualcosa alla Cina – racconta il professor Shi al New York Times – Negli Usa tutto è più o meno avviato. In Cina l’impatto di quello che faccio ha una valenza cento volte superiore». La voglia di Pechino di fermare la fuga dei cervelli, tuttavia, non mette in discussione la collaborazione tra i ricercatori cinesi e americani che tra il 2004 e il 2008 hanno firmato insieme oltre 39 mila pubblicazioni. Ma oltre alla quantità delle pubblicazioni conta anche la qualità, un tasto dolente per la ricerca cinese dopo l’accusa lanciata da Lancet. La rivista medica inglese chiede pubblicamente di porre rimedio al fenomeno delle frodi accademiche. Un richiamo indispensabile dopo la scoperta di una serie di frodi perpetrate da due equipe di ricercatori cinesi in una serie di saggi pubblicati a partire dal 2007, frutto di una sistematica manipolazione dei dati scientifici.
«Per rendere credibile l’obiettivo di diventare una superpotenza della ricerca entro il 2020 – scrive Lancet – la Cina deve prima assumere un ruolo da leader nel campo dell’integrità scientifica»
[Pubblicato su Il Riformista, il 27 gennaio 2010]
[Foto da http://news.tsinghua.edu.cn]