Storie di resistenza dei pastori della Mongolia Interna

In Cina, Economia, Politica e Società by Redazione

Nei primi giorni di quest’anno, una comunità di allevatori della bandiera (divisione amministrativa locale della Mongolia Interna, equivalente a una contea) di Horqin ha pubblicato una lettera aperta tramite Radio Free Asia (RFA), ong con sede a New York, indirizzata a Xi Jinping, Li Keqiang e altri funzionari. La motivazione è l’insoddisfazione generale nei confronti dell’operato dei funzionari locali: nella lettera sono state mosse accuse di frode, clientelismo e corruzione, in particolar modo contro il comitato di partito della bandiera, il governo locale, il dipartimento di polizia, l’ufficio del procuratore e altri dipartimenti.

La Regione Autonoma della Mongolia Interna, o Mongolia meridionale, è stata ampliamente investita dalle politiche di riduzione della povertà estrema, obiettivo che Pechino ha dichiarato di aver raggiunto a novembre dello scorso anno. “Il problema principale è che il progetto per alleviare la povertà è fraudolento e hanno preso il controllo delle praterie”, dice a RFA Gao Wulong, uno dei pastori della comunità.

Gli individui di etnia mongola costituiscono solo il 20% dei 23 milioni di abitanti della Mongolia Interna e il pascolo nomade del bestiame è parte integrante della loro cultura. La maggioranza della popolazione è Han, inclusi quelli che rivestono le principali cariche politiche della regione. Secondo gli abitanti del villaggio di Haoyao, nella bandiera di Horqin, il Segretario di partito locale si intascherebbe gran parte dei sussidi di povertà che spettano alle famiglie con difficili situazioni economiche. Nel 2014, vi erano 83 nuclei familiari del villaggio considerati sotto la soglia di povertà e meno della metà di essi ha beneficiato dei sussidi governativi. In un altro villaggio, Baiyiduur, il segretario Wang Shuanglin è stato rimosso dal suo incarico ed è tutt’ora indagato per aver ordinato, lo scorso settembre, la distruzione di 460 mu (equivalenti a 30 ettari) di raccolti di mais maturo. Pochi mesi prima, aveva fatto occupare con la forza alcuni pascoli.

Le comunità di pastori nomadi si battono da anni contro la corruzione sistematica delle forze politiche della regione: quasi tutti gli allevatori firmatari della lettera aperta raccontano di essere stati più volte arrestati dalla polizia locale, che intercetta e mette in stato di fermo chi attenta alla “stabilità sociale”. Alcuni di essi hanno anche subito violenze fisiche, come capitato al figlio del pastore Wu Babaoshan, che si era messo in contatto con una giornalista dell’emittente statale CCTV per lamentarsi dell’impatto ecologico del programma di “riduzione della povertà”. Appena le telecamere se ne sono andate, alcuni delinquenti hanno fatto irruzione in casa sua e lo hanno picchiato.

Nel nome della lotta alla povertà, gli implacabili investimenti sostenuti da Pechino hanno visto crescere nella regione vaste aree dedicate alla coltivazione di colza e avena, ai frutteti, agli allevamenti intensivi di suini, alle società minerarie e alle cave di terre rare. Il tentativo a livello nazionale di ridurre l’impatto ambientale delle grandi attività industriali, come quelle zootecniche, nelle province più ricche e attorno alle città costiere ne implica la localizzazione in regioni periferiche come lo Yunnan e la Mongolia Interna.

Nel 2010 Pechino ha annunciato che la regione è diventata la “base energetica della Cina”, con una produzione annuale di carbone che ha superato le 750 milioni di tonnellate e che si rifornisce da 36 bacini. In seguito, il governo regionale ha lanciato una vera e propria “corsa al carbone”, invitando compagnie minerarie cinesi da tutto il paese a investire nell’area e implementando una competizione tra le varie bandiere della regione. Anche nella sua controparte “esterna”, lo stato della Mongolia, la cui economia è stata rimodellata in particolare tra il 2009 e il 2013, i flussi di investimenti nelle infrastrutture minerarie delle regioni meridionali del deserto del Gobi hanno dato origine a maggiori investimenti nelle industrie secondarie e nelle costruzioni nella capitale Ulaanbaatar. Il settore minerario rappresenta l’85 percento dell’export, la maggior parte diretto in Cina. La mobilità e la connettività, come scrive Rebekah Plueckhahn per Made in China Journal, hanno sì aperto nuove possibilità ma hanno anche ostacolato l’economia mongola, che è divenuta estremamente sensibile all’andamento di quella cinese.

Nel 2020, la produzione di carbone cinese ha toccato i massimi dal 2015, arrivando, secondo i dati ufficiali, alle 3,84 miliardi di tonnellate. Il boom potrebbe in parte dipendere dall’embargo di Pechino contro il carbone australiano dello scorso anno che, tuttavia, ha mostrato le forti limitazioni dell’utilizzo di quello locale. Provenendo da province interne, tra cui lo Shanxi e dallo Shaanxi, è meno accessibile alle aree costiere cinesi. In quanto ai volumi, solo la produzione nella Mongolia interna è capace di sostituire il carbone australiano, ma non può competere in fatto di qualità.

Secondo la Southern Mongolia Human Rights Information Center (SMHRIC), ong con sede a New York, la “corsa al carbone” ha comportato lo sfollamento di più di 250.000 pastori nomadi. Le norme vigenti permettono alle società minerarie, come anche allee aziende di allevamento, di acquisire terre senza bisogno di alcun consenso o autorizzazione, prendendo a pretesto politiche che preserverebbero l’ecosistema delle praterie. Le informazioni ufficiali, difatti, spiegano che le direttive di trasferimento degli allevatori di etnia mongola nelle città della regione comporterebbero due benefici: aiutare economicamente i pastori il cui stile di vita nomade presupporrebbe instabilità economica e conservare le praterie. I pastori ritengono che il metodo di pascolo nomade non influisca negativamente sull’ambiente e che a comportare la distruzione ambientale sono le operazioni industriali. Gli allevamenti su larga scala – che prevedono pascoli fissi – e la deforestazione non regolamentata sono fattori importanti della crescente desertificazione: ad oggi, il 53% dei territori della bandiera di Horqin è desertica o quasi-desertica.

Chen Qinglin, di etnia mongola, afferma che le praterie costituiscono la principale fonte di sostentamento per i pastori e trasferirli significa togliere loro i mezzi di produzione. Le politiche governative perpetrano una vera e propria forma di “creazione di povertà”, allontanando i nomadi dagli ambienti in cui erano autosufficienti verso città dove sono consegnati a una povertà di lunga maggiore. Molti dei pastori che si sono visti costretti ad abbandonare il loro stile di vita tradizionale si sono “riciclati” come cercatori di oro artigianali: in Mongolia li chiamano ninja per la loro capacità di apparire e sparire velocemente.

Nei primi mesi del 2011, nella città di Xilingol, durante una mobilitazione in cui un gruppo di allevatori tentava di bloccare una carovana di camion per il trasporto del carbone, un pastore di nome Mergen è stato deliberatamente investito da un camionista cinese. Stando a quanto riferito, il corpo di Mergen sarebbe stato trascinato sotto le ruote del primo camion per 150 metri e poi colpito da altri mezzi. Le proteste che ne sono seguite sono state tra quelle di più ampia portata della regione: duemila manifestanti, principalmente studenti, hanno marciato verso il palazzo del governo della città, lamentando i danni causati all’ambiente dalle attività minerarie e il fatto che a beneficiare maggiormente dello sviluppo economico sia la maggioranza Han.

Un altro fatto tragico è stato il suicidio, nel 2015, di un 45enne di nome Tumur, che si è impiccato per protesta contro “l’occupazione illegale dei suoi pascoli da parte delle autorità”. Qualche giorno dopo, trecento pastori hanno manifestato davanti agli edifici governativi di Hohhot contro le politiche che avevano costretto migliaia di persone ad abbandonare i loro terreni, una situazione che si sta ripresentando in queste settimane nella bandiera di Orniud: da quanto afferma l’ong SMHRIC, un gran numero di pastori di etnia mongola è costretto a trasferirsi nei nuclei urbani per far posto agli allevamenti di maiali.

Ad agosto dello scorso anno, più di trecento allevatori sono scesi in protesta per le strade della città di Durbed contro i piani governativi che prevedevano la costruzione di sette nuovi allevamenti di suini nella regione. Pochi giorni dopo ha avuto luogo un’altra protesta per le medesime ragioni che ha coinvolto un centinaio di persone. Nelle terre che i governi locali utilizzano per attirare aziende cinesi dal resto del paese, ai pastori di etnia mongola è vietato il pascolo. Malgrado le autorità avessero dichiarato che la questione sarebbe stata risolta entro pochi giorni, una settimana dopo le rimostranze di Durbed il più grande dei sette stabilimenti ha ripreso le operazioni di costruzione.

In nome degli sforzi nazionali di espansione e arricchimento dei villaggi rurali, le decisioni per la costruzione di nuovi impianti di allevamento vengono prese senza consultare la popolazione locale. Anche nel caso sopra riportato, i progetti sono stati discussi esclusivamente tra il governo della bandiera di Durbed e un investitore cinese.

La discriminazione istituzionale di Pechino nei confronti dei pastori mongoli trova espressione anche nei limiti imposti all’utilizzo delle fonti acquifere, un discorso che si aggiunge al generale senso di sfiducia nelle istituzioni in merito all’inquinamento che vent’anni di estrazione petrolifera hanno inferto ai tre grandi fiumi che attraversano il deserto del Gobi, causando presumibili problemi di salute ai pastori nomadi che dipendano da quell’acqua, malgrado non esistano dati certi. Per accedere alla fonte idrica, i pastori di etnia mongola possono perforare fino a 200 metri. I cinesi Han che gestiscono gli allevamenti, invece, hanno il permesso di scavare fino a 450 metri di profondità per sopperire alla carenza di acqua, impoverendo ulteriormente la falda freatica. Le attività di allevamento sembrano non soffrire di alcun limite se sono di proprietà dei cinesi.

La situazione si sta inasprendo anche sul fronte educativo: successivamente alla decisione delle autorità di ridurre l’uso della loro lingua natia nei programmi scolastici a favore del mandarino, nella capitale sono scoppiate lo scorso settembre delle manifestazioni studentesche che hanno comportato l’intervento della polizia locale e una serie di arresti.

Di Vittoria Mazzieri*

**Vittoria Mazzieri, marchigiana, si è laureata con lode a “l’Orientale” di Napoli con una tesi di storia contemporanea che verte sul caso Jasic. Più volte in Cina sia per studio che per diletto, ha maturato negli anni una forte attrazione per gli sviluppi poco sereni dell’attivismo politico dal basso del “paese di mezzo”.