Sri Lanka – Ricetta per un miracolo economico

In Uncategorized by Simone

L’ex isola di Ceylon è in testa alla graduatoria delle economie più dinamiche del subcontinente indiano. Crescita tra il 7 e l’8 per cento stabile da cinque anni, inflazione sotto controllo, investimenti stranieri in arrivo dalla Cina e ambiziosi progetti di infrastrutture commerciali. Colombo si prepara a spiccare il volo.
Un lustro con un Pil in crescita tra il 7 e l’8 per cento. Investimenti esteri in continuo aumento. Inflazione stabile e sotto il 5 per cento. Disoccupazione in calo. Tipicamente la fine di un conflitto e la successiva ricostruzione portano a una ripresa delle attività produttive e a un parallelo dinamismo finanziario che spingono l’economia di un paese dopo un periodo di stagnazione.

Il caso dello Sri Lanka, che il mese scorso ha celebrato il quinto anniversario della conclusione della guerra civile che ha insanguinato il paese tra il 1983 e il 2009, non fa eccezione ma presenta alcune peculiarità che meritano di essere analizzate nel dettaglio e che possono aiutare a comprendere l’esatto percorso della “strada per lo sviluppo” che l’ex Ceylon sembra finalmente aver imboccato.

A fine maggio, al termine di una visita sull’isola durata dieci giorni, Todd Schneider, funzionario del Fondo monetario internazionale, ha dichiarato che secondo le stime dell’organizzazione quest’anno l’economia srilankese dovrebbe crescere del 7,3 per cnto “con un’inflazione sostanzialmente invariata, un outlook economico positivo e rischi contenuti nel breve periodo”.

Una performance invidiabile, neppure lontanamente ipotizzabile fino a pochi anni fa, che colloca la Lacrima dell’India in testa alla graduatoria delle economie più dinamiche del subcontinente indiano, in posizione nettamente staccata da Buthan, Maldive, Nepal, Pakistan e davanti anche ai buoni risultati del Bangladesh e di Nuova Delhi.

Anche perché i “rischi contenuti” di cui parla l’Fmi non sono sistemici, ma legati principalmente, per stessa ammissione del Fondo, alla recente siccità che ha colpito alcune zone del Paese. Un problema che potrebbe avere ripercussioni negative sulla bilancia dei pagamenti di uno dei principali esportatori di tè al mondo, terzo dopo India e Cina, senza però riuscire a intaccare in maniera significativa il surplus di 991 milioni di dollari ottenuto l’anno scorso (il dato è della Banca centrale dello Sri Lanka).

Dopo 26 anni di guerra tra il governo centrale di Colombo e l’Ltte, le Tigri per la Liberazione della Patria Tamil – che combattevano per instaurare uno Stato socialista di popolazione tamil nel nord e nell’est dell’isola – l’economia del Paese, sprofondata in un baratro fatto di grave arretratezza, semi isolamento e debito pubblico incontenibile, ha iniziato a registrare profondi cambiamenti.

I tradizionali settori che fungevano da traino, il turismo e appunto le esportazioni di tè, hanno beneficiato immediatamente della fine degli scontri, così come il tessile e l’abbigliamento, mentre la produzione agricola, concentrata essenzialmente su riso, noci di cocco e grano, ha visto un aumento delle vendite verso i Paesi vicini. L’export verso gli Stati Uniti, primo partner commerciale dell’isola, è aumentato, parallelamente all’import da Giappone, Hong Kong, Singapore, Taiwan e Corea del Sud. 

La crescita della produzione e degli scambi con l’estero, unitamente a politiche economiche orientate al contenimento dell’inflazione e alla riduzione del debito pubblico (passato dal 106 per cento del 2002 all’attuale 78 per cento), hanno consentito al piccolo Stato, prostrato dal lungo conflitto, di cominciare a rialzarsi in piedi, pur continuando a necessitare di consistente aiuto esterno per muovere qualche passo sul faticoso cammino per uscire dalla povertà.

Oggi in termini assoluti il Pil dello Sri Lanka vale 67 miliardi di dollari, una cifra di per sé contenuta, che tuttavia aumenta significativamente di peso se paragonata ai 17 di dieci anni fa.

I progetti di sviluppo di lungo periodo del governo e delle istituzioni economiche srilankesi, comunque, non passano per l’agricoltura e l’industria tessile ma per la trasformazione dell’isola, situata in posizione strategica nell’Oceano Indiano sulle principali rotte tra l’Europa e l’Estremo Oriente, in un hub logistico globale, in grado di fungere da punto di raccordo per lo scambio di merci e servizi tra paesi geograficamente molto distanti ma economicamente sempre più legati.

È quella che gli addetti ai lavori hanno battezzato “5+1 hub strategy”, un piano di sviluppo espresso nel Mahinda Chintana (letteralmente la Visione di Mahinda), il manifesto programmatico elaborato dal presidente Mahinda Rajapaksa per indicare le linee guida politiche ed economiche capaci di portare il Paese verso un “futuro più radioso”, come viene indicato nel testo.

L’idea che è alla base della 5+1 hub strategy ce la spiega direttamente Ajith Nivard Cabraal, il governatore della Banca centrale dello Sri Lanka, che abbiamo incontrato a Roma a margine di un convegno sugli scambi economici tra Europa e Asia.

“Questo programma coinvolge sei differenti settori: marittimo, energia, turismo, aviazione, cultura e commercio. In ciascuno di questi ambiti il nostro Paese punta a divenire un nodo di coordinamento e smistamento, in grado di semplificare i traffici, in vertiginoso aumento sia dal punto di vista quantitativo che della frequenza, tra il nostro continente, in cui occupiamo una posizione geograficamente privilegiata, e il resto del Mondo”
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Da un punto di vista logistico ed economico questo programma appare assolutamente logico. Il passaggio dalle intenzioni ai fatti, tuttavia, presenta non poche difficoltà. Lo Sri Lanka soffre ancora di una grave carenza di infrastrutture energetiche e di trasporto e la sua economia, per quanto in rapido sviluppo, in termini assoluti ha ancora dimensioni troppo contenute per potersi sostenere da sola.

“Siamo consapevoli che se molto è stato fatto, molto altro resta da fare”, ammette Cabraal. “Quello di cui abbiamo bisogno in questo momento sono principalmente investimenti stranieri che possano sostenere i grandi interventi di cui la nostra economia ha bisogno per uscire definitivamente dall’arretratezza di cui ha sofferto negli anni passati. Ci stiamo impegnando molto per colmare le nostre lacune e pensiamo di avere molto da offrire a coloro che vorranno diventare nostri partner. Anche perché investire in Sri Lanka significa ottenere un’importante opportunità di mettersi in relazione con economie estremamente dinamiche, come quella cinese e indiana”.

La proposta è oggettivamente allettante. Eppure, nonostante siano in crescita, gli investimenti stranieri non hanno ancora raggiunto quel picco che il governo di Colombo e molti analisti si aspettavano. L’anno scorso le stime parlavano di 2 miliardi, mentre sul piatto ne sono arrivati 1,3, secondo quanto riferisce la Bbc.

Il sospetto, avanzato da più parti, è che a fungere da freno agli investimenti possano essere le accuse di gravi violazioni dei diritti umani che ancora gravano sull’esecutivo di Mahinda Rajapaksa.

A marzo il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni unite ha adottato infatti una risoluzione che chiede allo Sri Lanka di fare chiarezza sui presunti crimini contro l’umanità avvenuti durante la guerra civile e sulle violazioni dei diritti umani che, secondo alcune ong e gruppi internazionali, tra cui Amnesty international, sono ancora in corso nel paese nei confronti della minoranza tamil.

Il provvedimento, promosso dagli Stati Uniti, è il terzo che arriva dall’Onu. Come già accaduto in precedenza, l’inviato speciale del presidente Rajapaksa a Ginevra, Mahinda Samarasinghe, ha dichiarato che lo Sri Lanka è contrario alla nuova risoluzione e che non offrirà alcuna forma di assistenza e sostegno alle indagini.

Un diniego assoluto che ha portato Navi Pillay, alto commissario Onu per i diritti umani, a dichiarare che se Colombo non ha intenzione di collaborare il suo ufficio condurrà comunque l’inchiesta con mezzi propri.

Quando proviamo a chiedere a Cabraal se esiste un nesso diretto tra la questione dei diritti umani e gli investimenti stranieri che non crescono come dovrebbero la risposta è categorica: “Assolutamente no. Non c’è nessun collegamento. Gli stranieri che scelgono di investire nel nostro Paese lo fanno perché sono interessati alla nostra economia, che è in crescita e sta divenendo sempre più solida. Infatti le stime ci dicono che il numero degli investitori è destinato ad aumentare nel prossimo futuro”.

Tra coloro che sono pronti a fare affari con Colombo senza curarsi troppo delle presunte violazioni dei diritti umani c’è sicuramente Pechino, che ha finanziato con 500 milioni di dollari il nuovo terminal portuale della capitale srilankese, nonché l’ampliamento del porto di Hambatonta, la prima superstrada a quattro corsie dell’isola e addirittura il restauro del Teatro nazionale.

L’ex Ceylon è una delle pietre angolari su cui poggia la “Collana di perle” cinese, una catena di capisaldi strategici sia dal punto di vista economico-commerciale che militare che da Hong Kong si estende fino a Port Sudan, toccando Vietnam, Thailandia, Myanmar, Bangladesh, Maldive, Pakistan, Iraq e Kenya, consentendo al paese della Grande Muraglia di tenere sotto controllo le rotte e i traffici che passano per il quadrante.

Il rischio di diventare una perla che il Dragone potrebbe rigirare nei lunghi e affilati artigli a proprio piacimento, però, non sembra al momento impensierire le autorità srilankesi, che appaiono ben contente di stringere i propri legami economici con il colosso cinese.

E analogo discorso può esser fatto per l’enorme e ingombrante vicino indiano. In un’intervista rilasciata al Wall Street Journal a fine maggio, Cabraal ha dichiarato che l’elezione di Narendra Modi a presidente dell’India non lo preoccupa affatto e che, anzi, questa svolta politica dovrebbe rendere “più semplice” consolidare i rapporti commerciali ed economici tra i due Paesi.

Il pragmatismo tempestato di ottimismo mostrato da Colombo, però, non è sufficiente a far scomparire i problemi con cui l’economia dell’isola deve confrontarsi. Primo tra tutti quello del basso, bassissimo gettito fiscale, indicato dal Fondo monetario internazionale come il principale settore su cui le autorità devono intervenire, e in tempi rapidi, per evitare che il debito pubblico torni a crescere, vanificando i passi avanti compiuti fino a questo momento.

[Foto credit: younghoteliers.blogspot.com]
*Paolo Tosatti è laureato in Scienze politiche all’università “La Sapienza” di Roma, dove ha anche conseguito un master in Diritto internazionale, ha studiato giornalismo alla Fondazione internazionale Lelio Basso. Lavora come giornalista nel quotidiano Terra.