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Spionaggio: la Cina rafforza il suo arsenale normativo

In Cina, Economia, Politica e Società by Alessandra Colarizi

Legge anti-spionaggio- Secondo la nuova formulazione – approvata dal parlamento cinese il 26 aprile e in vigore dal 1 luglio – “la portata degli obiettivi dello spionaggio” viene estesa a “tutti i documenti, i dati, i materiali e gli articoli” relativi alla “sicurezza o agli interessi nazionali”. Non più solo i “segreti di stato”.

 

Spionaggio: è l’accusa formalizzata a marzo contro il giornalista cinese Dong Yuyu, fermato il 21 febbraio del 2022 mentre pranzava nel centro di Pechino con un diplomatico giapponese. Spionaggio è anche il motivo ufficiale per cui lo stesso mese è stato arrestato un dipendente della società farmaceutica nipponica Astellas Pharma. E sempre per spionaggio hanno trascorso quasi tre anni nelle carceri cinesi i due cittadini canadesi Michael Spavor e Michael Kovrig coinvolti nel caso Huawei. Spie ovunque. Secondo il tabloid statale Global Times, è proprio l’aumento esponenziale di casi come questi ad aver reso necessario il recente emendamento alla Legge anti-spionaggio del 2014. Un ritocco in chiave restrittiva che lascia presagire un incremento – non una diminuzione – dell’utilizzo del controverso capo di imputazione per fini (geo)politici. 

Secondo la nuova formulazione – approvata dal parlamento cinese il 26 aprile e in vigore dal 1 luglio – “la portata degli obiettivi dello spionaggio” viene estesa a “tutti i documenti, i dati, i materiali e gli articoli” relativi alla “sicurezza o agli interessi nazionali”. Non più solo i “segreti di stato”. Tra le infrazioni passibili di pene amministrative compare anche il tentativo di “istigare, adescare, costringere o corrompere il personale statale” a fornire contenuti riservati. Come la versione originaria, la legge aggiornata non definisce chiaramente quali comportamenti rientrano nel perimetro della sicurezza o degli interessi nazionali. Ma nel nuovo testo viene esplicitato per la prima volta che anche gli attacchi informatici contro “organi statali, organi riservati o infrastrutture informative cruciali” possono essere considerati un atto di spionaggio. Nel corso delle indagini, le disposizioni consentono inoltre alle autorità di ottenere l’accesso a dati, apparecchiature elettroniche, informazioni su beni personali.

Le pene variano a seconda della gravità dell’infrazione: se la violazione costituisce reato, i trasgressori saranno puniti ai sensi del diritto penale, nel peggiore dei casi con l’ergastolo o la condanna a morte. “Quando gli atti di spionaggio sono compiuti da privati, ma non costituiscono reato”, è prevista invece “un’ammonizione o fino a 15 giorni di fermo amministrativo”, oppure una sanzione pecuniaria di oltre 50.000 yuan (6.515 euro). 

Da quando dieci anni fa Xi Jinping è diventato presidente, la sicurezza nazionale ha assunto un’importanza senza precedenti nell’agenda politica cinese. Con lo slogan zǒngtǐ guójiā ānquán guān  (总体国家安全观) l’amministrazione in carica ha abbattuto ogni distinzioni tra sicurezza interna e sicurezza esterna, tra sicurezza tradizionale e sicurezza non tradizionale: cambiamento climatico, emergenze sanitarie, stabilità alimentare ed energetica, corruzione, e gestione dei flussi migratori sono –- al pari dell’integrità territoriale –- fattori in grado di incidere sulla stabilità interna. Il clima internazionale – specialmente le tensioni con gli Stati Uniti – hanno favorito una progressiva stretta securitaria.

Questo spiega l’introduzione a stretto giro di tre normative ad hoc: oltre alla Legge anti-spionaggio, tra il 2014 e il 2017, Pechino ha aggiunto al suo arsenale legale una Legge sulla sicurezza nazionale e un’altra sull’intelligence nazionale, che obbliga le imprese straniere operanti in Cina e quelle cinesi all’estero a consegnare informazioni sensibili alle autorità quando richiesto. Alle disposizioni scritte è stata affiancata una campagna con ricompense fino a 500.000 yuan (oltre 65.000 euro) per incoraggiare i cittadini a segnalare attività sospette la sicurezza nazionale. Una pratica, quella delle delazioni prezzolate, che Xi ha attinto in maniera abbastanza esplicita dal periodo maoista. 

Mentre il pallino della stabilità accomuna un po’ tutti i leader cinesi da Deng Xiaoping in poi, l’attuale amministrazione pare aver sistematizzato il corpus normativo dando una veste ufficiale a forme di sorveglianza un tempo esercitate tra molte zone grigie. “Dobbiamo prendere l’iniziativa nello studio della legge, con particolare attenzione alla Legge anti-spionaggio recentemente modificata, e comprendere sistematicamente le leggi e i regolamenti sulla sicurezza nazionale”, ha dichiarato alcuni giorni fa il ministro della Sicurezza dello Stato, Chen Yixin. Secondo il capo della “CIA cinese”, è inoltre necessario “aumentare l’intensità della repressione delle forze dell’ordine e dei mezzi giudiziari e migliorare la nostra capacità di plasmare la sicurezza dello stato utilizzando strumenti legali”.

Se sulla carta porre la sicurezza nazionale all’interno di confini formali dovrebbe servire a prevenire comportamenti abusivi nella fase attuativa, dall’altra il linguaggio delle normative, estremamente vago, rischia al contrario di legittimare la coercizione. Commentando la promulgazione della Legge sulla Sicurezza nazionale, nel 2015 l’Alto Commissariato dell’Onu osservava come la terminologia “troppo ampia” “lascia la porta spalancata a ulteriori restrizioni dei diritti e delle libertà dei cittadini cinesi e a un controllo ancora più stretto della società civile da parte delle autorità rispetto a quello che già esiste”.

Nel caso della normativa anti-spionaggio i rischi non sono inferiori. Soprattutto per chi opera nel giornalismo e l’information technology. Ma ormai anche in tutti quei settori che prevedono la gestione di dati sensibili, come la consulenza aziendale. A preoccupare gli esperti è in particolare l’Articolo 33 che consente alle autorità cinesi di imporre divieti di uscita a chiunque sia indagato (cittadini cinesi o stranieri senza distinzione) se ritenuto un potenziale rischio per la sicurezza nazionale. Una pratica che negli ultimi anni è stata impiegata con una crescente frequenza. Talvolta, parrebbe anche semplicemente per ragioni politiche. 

Secondo il database della Corte Suprema cinese – consultato dalla Reuters – il numero dei casi giudiziari che menzionano questo tipo di restrizioni sulla mobilità è aumentato otto volte tra il 2016 e il 2022. Come segnalato dall’Ong Safeguard Defenders, in alcune circostanze il divieto è stato esercitato in violazione dell’articolo 13 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, che conferisce a tutti il diritto di muoversi liberamente “entro i confini di ciascuno stato” e “di lasciare qualsiasi paese, compreso il proprio, o di tornare nel [proprio] paese”. Secondo l’organizzazione Dui Hua, nel 2022 erano una trentina gli americani bloccati in Cina, oltre ai 200 in stato di detenzioni per motivazioni ritenute “arbitrarie”. 

Di Alessandra Colarizi

[Pubblicato su Gariwo]