Speciale Xinjiang: Gli uiguri di Pechino

In by Simone

Questi sono giorni difficili per gli uiguri: parlando con un’amica uigura via messenger si può assistere a un controllo dei documenti in diretta, oppure andare a trovare qualcuno nel Xinjiang significa dover passare attraverso rigide procedure di registrazione, sempre che sia permesso farlo. L’anniversario delle proteste di Urumqi si avvicina e Pechino sa che nuove sorprese potrebbero nascondersi dietro l’angolo. Secondo le autorità, gli uiguri, popolazione dal "re xue", dal sangue caldo, sono imprevedibili e difficilmente assimilabili alla cultura han.

Gli uiguri di Pechino sono una piccola comunità di circa duemila persone. Il senso di appartenenza al gruppo è molto forte, le condizioni di vita sono spesso complesse e, in caso di difficoltà, i primi cui si chiede sostegno sono coloro che vengono dallo stesso villaggio o dalla stessa area del Xinjiang. Sono tutti cinesi, ma è difficile sentirglielo dire, la loro percezione è quella di essere “stranieri in terra straniera”, o “figli di un dio minore”. Nonostante siano tutti musulmani sunniti, non è loro permesso coltivare il culto come la loro religione prescriverebbe di fare: nella Cina laica e delle “religioni ufficiali”, chi lavora o studia all’università non può frequentare la moschea e pregare cinque volte al giorno, è inoltre estremamente difficile rispettare il Ramadan e le altre festività islamiche a causa dei meticolosi controlli dei funzionari governativi.

L’unica prescrizione cui gli uiguri non possono venir meno è il non mangiare carne di maiale, per questo a Pechino il luogo di ritrovo più comune è proprio il ristorante uiguro, dove i profumi e gli ambienti ricordano il Xinjiang. Il governo cinese teme questa minoranza etnica, circa 8 milioni di persone in Cina, e un numero non chiaro all’estero, che dovrebbe attestarsi intorno ai 4-5 milioni. Il fatto che non siano disposti a sposarsi con persone del gruppo etnico dominante han è preoccupante, l’identità legata all’etnia e alla religione è molto forte e si tramanda, immutata, nel tempo. Il matrimonio più comune è quello con un partner dello stesso villaggio o di un villaggio vicino.

Al massimo con uno straniero, mai con uno han. Inoltre, il temperamento caldo, a tratti levantino, degli uiguri, non è compatibile con un governo centrale che impedisce manifestazioni di piazza e organizzazioni spontanee. Si sentono costretti in un ambiente ostile e razzista, ma per far capire che non possono parlare, mettono un polso sull’altro facendo il gesto che indica le manette. Cioè: chi parla e protesta è finito. Tra divieti e prescrizioni, gli uiguri di Pechino trascorrono il tempo tra lavori sottopagati e alloggi sovraffollati, osservatori passivi di una crescita economica che li riguarda solo in minima parte. La loro speranza è quella di migliorare le proprie condizioni, trovare un lavoro soddisfacente e riuscire, prima o poi, a mettere su famiglia. Quei pochi uiguri che hanno fatto fortuna sono rispettati, a meno che non siano sposati con han: in questo caso sono considerati fuori dalla comunità.

Un anno fa le rivolte di Urumqi hanno destabilizzato il Xinjiang, il blocco delle chiamate internazionali e di internet è durato una decina di mesi, il rilascio di documenti e passaporti si è fermato, Wang Lequan ha lasciato il posto a un nuovo leader del Partito regionale, Zhang Chunxian, ci sono state 9 esecuzioni e 26 ulteriori condanne a morte, migliaia di uiguri in tutta la regione sono stati interrogati, un numero non ancora chiaro messo in prigione.
L’anniversario di quei fatti è vicino e la situazione è tesa: le notizie arrivano a spizzichi e bocconi, la madre che chiama da Qumul e informa che chiunque visiti la famiglia deve registrarsi all’ufficio della polizia, nuovi regolamenti che riguardano la sicurezza, l’installazione di telecamere nelle città-oasi, l’arresto di gruppi terroristici. Gli sguardi sono seri, le espressioni preoccupate, la loro voce non si sente, nessuno chiede la loro opinione su quegli eventi. I media esteri hanno riferito pedissequamente ciò che i rappresentanti del governo centrale e regionale hanno sostenuto nelle conferenze stampa: le tensioni sarebbero nate dall’istigazione dei gruppi di uiguri all’estero, guidati, secondo Pechino, da Rebiya Kadeer. I morti sarebbero stati principalmente han. La Kadeer ha risposto in varie sedi alle accuse di Pechino, dal parlamento europeo a congressi internazionali sui diritti umani, e la sua dichiarazione è sempre la stessa: non è lei la responsabile delle proteste, sarebbe piuttosto il governo cinese che non garantisce pari diritti e pari dignità alle popolazioni dei gruppi etnici minoritari. Per questo gli uiguri di diverse città del Xinjiang sarebbero insorti. E i morti sarebbero stati principalmente uiguri.

Al di là della guerra di cifre e dei proclami ufficiali, che i media sono stati prontissimi a recepire, c’è una voce che è rimasta inascoltata: cosa pensano gli uiguri, qual è il loro punto di vista su quanto è avvenuto? Del resto i “fatti del 5 luglio”, come li chiamano in Cina, si sono svolti sul loro territorio, e loro stessi sono stati i più coinvolti, additati, interrogati, per poi rimanere intrappolati nel gioco mediatico ed essere guardati con sospetto e tacciati di volontà separatiste. Il sogno di tanti è di andare all’estero, di vistare altri paesi, l’emissione dei passaporti si è fermata e chi non ha guanxi, conoscenze altolocate, può aspettare.
Non è facile capire quale sia la loro opinione e il loro punto di vista, soprattutto nel Xinjiang: lì è praticamente impossibile parlare, la gente ha veramente paura e sa di mettersi in pericolo. A Pechino c’è più libertà, il governo non riesce a controllare tutto ciò che avviene nella città del futuro. Dunque, nonostante gli uiguri che vivono nella capitale sappiano di non essere tenuti a esprimersi e di non potere esprimersi, hanno comunque voglia di parlare. La voce non esce e ci si guarda intorno per assicurarsi di non essere ascoltati, ci si sente a proprio agio solo tra amici di lunga data, e quando ci si esprime in uiguro le loro espressioni si rilassano e finalmente si aprono.

Le informazioni che meglio rappresentano il punto di vista degli uiguri che vivono a Pechino sono voci non confermate e messaggi inviati per sms, un brulichio di comunicazioni tenute nascoste ma percepite come vere. La verificabilità dei fatti è un problema come lo è capire quanto le fonti ufficiali siano sincere, nello stesso tempo la percezione degli eventi più diffusa è costituita proprio da quelle voci e da quei messaggi. Subito dopo gli eventi del Guangdong del giugno 2009, quando due operai uiguri furono uccisi da un gruppo di han perché ingiustamente accusati di aver violentato una ragazza han, l’informazione più accreditata era che in realtà i morti non erano stati solo due ma tra i 100 e i 200, tutti uiguri. L’evento non sarebbe stato limitato a una baruffa per strada, ma si sarebbe configurato come un violento scontro tra etnie. A fine giugno del 2009, da Urumqi a Pechino, la notizia aveva sconvolto e preoccupato la popolazione, indignata per la clemenza che il governo aveva usato contro gli uccisori. Il maggiore quesito era: a prescindere dal numero dei morti, se gli aggressori fossero stati uiguri, le forze dell’ordine sarebbero state così clementi? Ci si guardava in faccia con smarrimento senza neanche tentare di darsi una risposta.

Quello che è accaduto il 5 luglio sarebbe partito dall’iniziativa di un gruppo di studenti dell’Università del Xinjiang, che avrebbe fatto circolare la voce di radunarsi nella Renmin guangchang, la Piazza del Popolo, per esprimere il proprio dissenso rispetto al comportamento del governo rispetto a ciò che era accaduto nel Guandong. Quando si chiede di che tipo di protesta si trattava, ci si sente rispondere: “quando nel vostro paese si vuole protestare contro qualcosa che è percepito come ingiusto, non fate la stessa cosa?”. Per loro è dunque una protesta pacifica, mirata alla richiesta di legittime spiegazioni e uguali diritti. Nello stesso tempo si dice anche che, nonostante il potente
apparato di pubblica sicurezza fosse venuto a conoscenza delle intenzioni degli studenti, abbia lasciato fare, per poi cominciare a caricare con violenza durante la protesta. I morti sarebbero stati principalmente uiguri, anche se si ammette che, una volta scoppiata la violenza, anche questi abbiano cominciato a reagire, uccidendo degli han. I morti sarebbero stati alcune migliaia, soprattutto uiguri. A detta di qualcuno la polizia aveva già preparato le bare per eliminare velocemente, durante la notte, le tracce del massacro.
Come è noto in città è subito scattato il coprifuoco, e da quel momento in poi tutta la regione è diventata inaccessibile agli stranieri, o accessibile solo attraverso i tour ufficiali per giornalisti. Quelli che hanno provato a interpretare i fatti, come il docente di economia della Minzu University di Pechino, il professore Ilham Tohti, sono stati immediatamente fermati tramite arresto e congelamento dei beni.

Un altro genere di materiale informativo che gli uiguri ritengono essere indiscutibile sono i video girati con i cellulari durante e dopo gli scontri. Sia giovani han che uiguri ne sono in possesso, e li mostrano a coloro di cui si fidano. Questi filmati sono arrivati anche agli uiguri di Pechino, soprattutto relativi ai mesi successivi al massacro, in cui si vede che folle di han armati di bastoni fermano le macchine e, se vi trovano degli uiguri, picchiano violentemente. E’ opinione di molti che nei mesi successivi al 5 luglio ci sarebbero stati molti più morti rispetto al luglio precedente; se questo fosse vero, il massacro sarebbe di qualche migliaia di persone.

In seguito al 5 luglio 2009 il governo cinese sta finanziando progetti editoriali e televisivi sul terrorismo e i separatisti del Turkestan orientale: in qualsiasi libreria di Pechino si può trovare una pubblicazione del settembre 2009, intitolata “La lotta al terrorismo e il separatismo nell’epoca della nuova Cina”, in cui si mostrano foto di armi e bombe, nascondigli e cunicoli, autobus e palazzi sventrati che rappresenterebbero la storia del terrorismo uiguro. E’ il Dipartimento centrale di Propaganda che finanzia, e il prossimo prodotto sarà una serie televisiva a puntate sul separatismo. Osservatori passivi, gli uiguri reputano che queste cose siano molto negative per la propria popolazione, che, osservando il Corano, rifiuta la violenza.

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