Una calma insolita regna su Urumqi. Il 5 luglio dell’anno scorso gli scontri tra uiguri, musulmani di origine turca, e cinesi han fecero 197 morti secondo la versione ufficiale, e 1700 feriti. Nell’anniversario del massacro l’armonia è sorvegliata da migliaia di telecamere antisommossa installate nelle strade, nelle scuole, nei supermercati e nei mezzi pubblici del capoluogo dello Xinjiang. Mentre per le vie della città girano pattuglie di poliziotti armati di pistole e sfollagente.
Il fantasma di nuove violenze si è materializzato solo pochi giorni fa, con l’arresto di 10 presunti terroristi pronti, ha detto il ministero per la Sicurezza pubblica, ad attaccare in tre diverse città della provincia nel nome del Movimento islamico per il Turkestan orientale.
Un anno fa invece il governo cinese puntò il dito contro i movimenti separatisti e contro la diaspora uigura. Rebiya Kadeer, sessantaduenne presidente del World Uyghur Congress, riparata dal 2005 in esilio negli Stati Uniti fu accusata di essere la mente delle proteste. Di contro la dirigenza in esilio denuncio la repressione di Pechino. Sulla versione ufficiale del governo cinese si sono alzate nei giorni scorsi anche le critiche di Amnesty International. L’organizzazione ha chiesto al governo cinese di avviare un’inchiesta indipendente su quanto accaduto. Secondo le testimonianze raccolte tra i sopravvissuti uiguri Pechino si sarebbe macchiata di arresti arbitrari, torture e sparizioni. Una testimone oculare ha raccontato che la protesta del 5 luglio iniziò pacificamente ma fu poi repressa nel sangue dalle forze dell’ordine.
Sui media cinesi sono invece gli han a parlare. “Avevo paura, i dimostranti erano mostri spaventosi”, ha detto Wang Yang, sei anni, intervistato dal China Daily e da un anno ospite al Villaggio dei bambini insieme ad altri orfani.
“Non parliamo di quei giorni”, ha raccontato invece al Global Times una donna cinese, “ma questo non vuol dire che abbiamo dimenticato”.
La calma apparente è rappresentata anche dal pieno ripristino dei servizi online. Per dieci mesi la regione fu sotto un balckout informatico: internet e le comunicazioni furono bloccati per poi essere a poco a poco riattivati nei mesi successivi. Prima gli sms (20 al giorno) e la possibilità di accedere a siti approvati dallo Stato, come l’agenzia Xinhua o il Quotidiano del popolo.
All’origine dell’oscuramento, ha scritto l’agenzia Xinhua, ci fu l’uso della rete per fomentare la rivolta. A fine giugno, in una fabbrica di Shaoguan, nel sud della Cina, si sparse la voce, rivelatasi falsa, che un gruppo di operai uiguri avesse violentato una donna cinese. La caccia all’uomo scatenata dal presunto stupro si concluse con la morte di due uiguri. La notizia dell’omicidio ripresa su internet diventò la scintilla che ha dato il via alla rivolta e ha fatto degenerare la rivalità tra le due comunità. Un incidente costato la condanna a morte a un cinese di nome Xiao Jianhua, considerato il maggior istigatore delle violenze per aver fomentato il linciaggio. Con lui hanno affrontato il patibolo almeno altre 26 persone. Mentre in centinaia sono ancora sotto processo.
Il ritorno delle connessione è coinciso con l’annuncio di nuovi progetti per il rilancio economico della provincia che, nei piani di Pechino, dovrà diventare lo snodo primario del commercio con l’Asia centrale e Kashgar, culla della cultura uigura, sarà trasformata in una zona economica speciale.
Nel solo 2010 la regione riceverà aiuti per oltre un miliardo di yuan (1 milione di euro) e tra il 2011 e il 2015, ha scritto il Quotidiano del popolo, gli investimenti potrebbero superare i 200 miliardi di euro. Non senza timore per gli uiguri di vedere minacciata la propria cultura e identità.
In mezzo ci furono la psicosi per gli attacchi a colpi di siringa a settembre, la fuga di 22 rifugiati entrati clandestinamente in Cambogia con l’aiuto di una rete di missionari lo scorso dicembre, cui il governo di Phnom Penh aveva rifiutato asilo politico e la cacciata del segretario del Partito comunista dello Xinjiang, Wang Lequan. A Urumqi intanto regna la calma. A vegliarla ci saranno migliaia di poliziotti che fino al 20 luglio non potranno prendersi una vacanza.