Speciale Bookworm – Fare giornalismo, in Cina

In by Simone

A differenza di Mike Daisey hanno vissuto e lavorato in Cina a lungo, interrogandosi sulla maniera migliore di fare giornalismo. Branigan, Magistad, Osnos e Cao ci raccontano come sono cambiate difficoltà, sfide e tecnologie negli ultimi dieci anni. In un contesto così particolare come quello cinese.Rispondono con frasi brevi, cariche di humor. Questo il tratto in comune tra i principali corrispondenti a Pechino (Tania Branigan per il Guardian, Mary Kay Magistad per Pri’s The world, Evan Osnos per il New Yorker) e la vice direttrice di Caixin, Cao Haili.

Forse perché tutti si rendono conto che fare un discorso unico e complesso sulla Cina contemporanea è pressoché impossibile. Troppi contrasti, troppe parentesi da aprire, troppe tessere mancanti per completare il puzzle.

Il punto è, come sottolinea la Branigan che “più a lungo si sta in Cina e meno si riesce a scrivere”, come dire, se si prova ad andare in profondità in questo paese, ci si rende conto che si è ben lontani anche solo dalla superficie delle cose.

Un esempio ultimo è il caso del programma radio di Mike Daisey, ci racconta Evan Osnos. Diceva cose verosimili, ma ben lontane dal vero.

È arrivato ai cancelli di Foxconn a Shenzhen, e poi ha detto di aver intervistato centinaia di lavoratrici e lavoratori alcuni di dodici o tredici anni che avevano un tremito continuo alle mani a causa dei prodotti chimici usati per pulire gli schermi dei nostri Iphone, ha raccontato che le fabbriche erano sorvegliate da personale armato e da videocamere a circuito chiuso financo nei dormitori.

Ha risvegliato le emozioni che la maggior parte del pubblico occidentale si aspetta di trovare in una storia che parla di Apple e fabbriche nella comunista Cina del terzo mondo. Con un solo problema, che per creare la storia perfetta, ha mentito.

Non su tutto certo, ma in più punti come ad esempio in quelli sopraelencati. E ha parlato della Cina come se fossimo nel secolo scorso, una Cina esotica, che si presume nessuno conosca.

E dove invece ci sono moltissime persone che lavorano, possono verificare i fatti, persone che vivono in questa realtà e ne conosco i pregi e i difetti. Questo è un esempio del giornalismo occidentale in Cina. Uno dei tanti.

E c’è da puntualizzare anche, che il giornalismo cinese non è più quello cui siamo abituati a pensare in occidente. Fino a metà degli anni Novanta bastava una parola a descrivere il giornalismo cinese: “prevedibile”, suggerisce la Magistad.

Le notizie che uscivano dalle conferenze stampa, quelle che leggevi sui giornali o che lanciava  Xinhua, erano tutte “prevedibili”. Poi intorno al 2000 c’è stata Hu Shuli e la rivoluzione di giornali commerciali, non più finanziati dal partito. E l’inizio del giornalismo indipendente e di inchiesta, capitanato da personalità del calibro di Wang Keqin.

Hu ha fatto veramente del giornalismo impegnato, sapendo come cercare le notizie, come muoversi in certi ambienti, come aggirare le difficoltà. Per chi è estraneo al contesto del giornalismo cinese non è facile capire l’importanza di una figura come quella di Hu Shuli.

“Un picchio” si definisce, perché continua a insistere fino a quando non ottiene il risultato. E Caijing, la prima rivista che ha diretto – e da cui è stata licenziata per aver dato fastidio a troppi – è stato il secondo giornale commerciale, libero.

E c’è anche da tener conto, in un discorso sul giornalismo sulla Cina, della diffusione dell’utilizzo di internet, con notizie di altro tipo e opinioni che avevano finalmente la possibilità di venire a galla. Ora il pubblico ha il diritto di scelta.

Tanto che oggi il punto “non è più cosa scrivere, ma sapere cosa non scrivere”. Weibo, il twitter cinese, è l’esempio massimo di questa questione. E Cao Haili non si unisce al coro degli entusiasti sui nuovi media.

Cambia completamente il modo di fare giornalismo, perché viene quasi a scomparire il concetto di esclusiva o di scoop. E bisogna stare molto attenti, sottolinea. Intanto a non comunicare su cosa si sta lavorando altrimenti la polizia potrebbe arrivare prima di te e poi a verificare le notizie.

Ma è anche vero che attraverso gli strumenti del web 2.0 si spostano i limiti della censura sempre in avanti e questo bisogna riconoscerlo. Weibo è stata una sorta di rivoluzione dell’informazione.

Si ha sempre un maggior numero di informazioni, anche se non sempre verificate. Ma comunque, sottolinea Osnos, episodi come quello dello Sars del 2003 non potrebbero più verificarsi.

L’epidemia scoppiò a dicembre 2002, la notizia si diffuse a febbraio e in Cina solo a marzo. Tenere a bada un’informazione del genere oggi è impensabile. Dottori, portantini e infermiere avrebbero diffuso la notizia su Weibo non appena si fossero resi conto della gravità della situazione.

Ma è anche vero che di politica ancora non si parla, ci ricorda la Braningan. E che se il discorso di Hu Jintao trasmesso dalla Cctv è sì vero, riportarlo non è fare giornalismo, ma l’ufficio stampa del Governo.