Sinologie— Il pensiero giovanile di Mao tra Confucio e Marx (Seconda Parte)

In Sinologie by Redazione

Il rapporto del giovane Mao con il Confucianesimo si muove in una dialettica molto particolare, tra innovazione e tradizione. Egli abbracciò alcuni dei temi cardine del pensiero tradizionale, rigettandone invece altri e ridiscutendoli. Le tematiche del pensiero tradizionale che attirarono maggiormente la riflessione del giovane Mao e sulle quali si giocò questa ambivalenza sono quelle relative alla dimensione spirituale ed il Cielo, l’importanza dei riti e della pietà filiale, la natura umana e l’arte di governo.

Un primo esempio di questo atteggiamento ambivalente è rappresentato dalla trattazione del concetto di dao che emerge fin dal primo scritto di Mao Zedong, Uno studio sull’educazione fisica, datato 1917 e pubblicato sulla rivista Gioventù Nuova. In tale articolo, scritto completamente in wenyan, Mao definì la propria visione di dao citando direttamente uno dei Quattro Libri: il Daxue. Ciò che Mao decise di cambiare fu proprio il soggetto in questione. Se per i pensatori antichi, infatti, la priorità era riservata allo studio e alla pratica, Mao attribuì, al contrario, un ruolo predominante all’attività fisica vista come igiene dai tradizionalisti, ma che per Mao rappresentava il rafforzamento del corpo e veniva considerata come una modalità per riportare la Cina al grande splendore di un tempo. Gli uomini dovevano rafforzare se stessi per rafforzare la Cina come nazione, sconvolta in quel periodo dalla guerra e dall’invasione occidentale. Come dimostrato dalle parole di apertura del saggio in questione: “La potenza del paese è scarsa, l’arte militare non è tenuta in considerazione, lo stato fisico della popolazione peggiora di giorno in giorno: questo è un fenomeno che rattrista profondamente”. Tale concetto non rimase statico all’interno del pensiero del Grande Timoniere, ma si sviluppò con il passare del tempo come dimostra il fatto che solo due anni dopo, nel 1919, all’interno dello scritto La grande unione delle masse popolari, Mao identificava il dao nella missione del popolo cinese di sconfiggere i capitalisti

Qualcosa di simile accadde anche per il concetto di Tian. Mao si fece portavoce di una società più dinamica, contrapposta ad una di tipo statico, teorizzata dal confucianesimo. Anche il Cielo spronava gli uomini a divenire forti, anch’esso era portavoce di concetti più “rivoluzionari” e dinamici.

In linea generale, si può affermare che anche quando le idee tradizionali venivano riprese da Mao, per la maggior parte delle volte questo avveniva per un uso strumentale, anche perché esse venivano immediatamente confutate in modo linguisticamente molto violento. Sarebbe quindi lecito affermare che Mao si servisse di riferimenti diretti presi dalla tradizione confuciana soltanto per avere una maggiore presa sul pubblico. Utilizzando un linguaggio più legato alla tradizione, risultava infatti molto più facile catturare l’attenzione dei suoi ascoltatori. Tuttavia, è importante sottolineare che, in alcuni casi Mao sembrava sposare in maniera acritica alcuni degli aspetti della dottrina confuciana.

Negli scritti più maturi, le prime argomentazioni e dichiarazioni lasciarono spazio a discorsi piuttosto ideologizzati basati sullo stile occidentale, che rasentano il tono propagandistico e risultano quasi privi di ragionamento filosofico. Si potrebbe affermare che Mao, a partire dal 1919, anno di fondazione del Movimento del Quattro Maggio, avesse sposato la causa degli intellettuali più modernisti, che vedevano la tradizione come uno strumento arretrato e che, pertanto, doveva essere dimenticata e non seguita.

Parallelo al tema della dimensione spirituale, negli scritti di Mao si ritrova anche la descrizione della dimensione sociale, dove sono numerosi gli aspetti di ripresa e di distacco. Un primo esempio si riscontra nelle critiche mosse da Mao nei confronti della superstizione, che quindi non riguardavano il vero e proprio concetto di li. Negli scritti successivi al 1919, tuttavia, si riscontra un distacco sempre maggiore: piuttosto che sottolineare l’importanza del sistema rituale, egli diede grandissima importanza alla dimensione individuale dell’uomo, visto come l’unico artefice del proprio destino. Particolarmente importante risulta essere il fatto che, nella formulazione e nella critica del sistema rituale, venga omessa la dimensione sociale. Tali omissioni risultano essere particolarmente significative, perché costituivano degli aspetti che potevano essere criticati. sembra quindi che Mao percepisse tali concetti, ancora una volta, come parte integrante della propria formazione e tradizione, pertanto, essi non venivano recepiti come retrogradi e da dimenticare.

Lo schema si ripete anche nella formulazione del concetto di studio, nel quale giocò un ruolo particolarmente importante il suo insegnante Yang Changji, la cui concezione di studio non divergeva poi così tanto da quella di Confucio e di Xunzi. Lo studio era considerato come l’unico modo per riformare il popolo, le critiche di Mao, quindi, si muovevano non tanto verso il metodo di studio, ma verso quello di insegnamento. Un’ulteriore critica viene delineata anche nella descrizione della natura umana: l’universo maoista era diviso nettamente in buoni e cattivi, in nemici ed amici. Torna ancora una volta una critica ad una società statica ed immobile, rispetto ad una più dinamica. La volontà di distacco viene confermata in scritti come Il suicidio della signorina Chao oppure Rapporto di inchiesta sul movimento contadino dello Hunan, in cui la società cinese veniva descritta come una prigione, una gabbia, da cui occorreva liberarsi.

Per quanto riguarda il tema del buon governo, sembra esistere un’analogia tra due momenti storici che furono particolarmente delicati per la storia cinese: l’epoca in cui visse e scrisse Mao Zedong e quella in cui vissero i grandi filosofi, come Confucio, Mencio, Xunzi eccetera. Proprio come avevano fatto i confuciani, spinti dal momento di crisi che stavano attraversando, i giovani intellettuali dei primi anni del Novecento si interrogarono sul motivo della crisi politica della Cina, incapace di reagire alla divisione e all’invasione occidentale. La situazione ricalcava infatti in parte le condizioni che Confucio e Mencio vissero, in un’epoca in cui le riflessioni degli intellettuali si concentrarono sulla mancanza di un sovrano capace di riunire tutto il territorio cinese sotto un grande impero. Nell’epoca degli Stati Combattenti la questione era meramente politica: i diversi stati combattevano per uno stesso fine, seguendo valori condivisi unanimemente. Al contrario, l’imperialismo significava qualcos’altro: alla divisione politica si aggiungeva la sfida al sistema di valori tradizionali, diventati la vittima sacrificale degli intellettuali.

Un ulteriore aspetto di critica si riscontra nel concetto del wuwei, visto dai confuciani come una delle caratteristiche principali del sovrano, ma criticato da Mao e paragonato all’ inattività e all’ immobilità. Un parziale riscontro si ritrova nella teoria del “proteggere il popolo”, poiché in entrambe le dottrine si ritrova l’idea di uno stato paternalistico che avrebbe dovuto trattare il popolo come un figlio e mettere i loro desideri di fronte ai propri. Tuttavia, i due discorsi divergono su chi avrebbe dovuto governare: per Mencio era il sovrano, per il Grande Timoniere, al contrario era la bolscevizzazione. Le divergenze riguardanti questo tema sono soprattutto concettuali: ad esempio, Mao non parlò mai di geming inteso come rivoluzione tradizionale, ma si fece portavoce di un modello di rivoluzione che i confuciani non avrebbero mai accettato, di un vero e proprio rovesciamento di potere, che sarebbe dovuto avvenire in maniera violenta. Seguendo questa logica, era facile per Mao escludere dal processo rivoluzionario tutti coloro che invece di seguire un ideale di rivoluzione “selvaggia” e “violenta” ne professavano una di tipo “pacifico”. Questo passaggio è particolarmente significativo, perché Mao per descrivere come non avrebbe dovuto essere la rivoluzione, utilizzò degli aggettivi attribuiti a Confucio all’interno dei Dialoghi. Attraverso quest’uso strumentale del linguaggio, venivano esclusi dal processo rivoluzionario vero e proprio tutti coloro che seguivano ancora i modelli tradizionali.

di Noemi Settefonti

Noemi Settefonti, noemi.s-91@hotmail.it. Laurea Specialistica in Scienze Linguistiche per la comunicazione interculturale ( 110 e lode), presso l’Università per Stranieri di Siena.

**Questa tesi è stata discussa presso l’Università per Stranieri di Siena.

Relatore: Prof. Mauro Croscenzi.