Sinologie – Huawei in Africa: si può parlare di “colonialismo” cinese?

In Cina, Sinologie by Redazione

Huawei è entrata nel mercato africano nel 1998 e da allora ha concentrato la maggior parte dei suoi investimenti esteri nel continente, soprattutto nella regione subsahariana. In molti si sono chiesti se la strategia delle aziende cinesi, come Huawei, possa essere considerata una nuova forma di colonialismo. Alcune considerazioni tratte dalla tesi di Elisa Cirrincione.

La questione della presenza della Cina in Africa è un argomento tanto importante quanto trascurato dai media, soprattutto da quelli italiani: dagli anni Settanta infatti, il gigante asiatico ha esteso la sua influenza nel continente grazie sia alla propaganda e al suo ruolo di capofila del terzo mondo. Lo ha fatto sia grazie ad azioni concrete, come la costruzione di infrastrutture, sia attraverso l’istituzione di alleanze e accordi con i governi africani. Uno dei settori che ha maggiormente interessato questo fenomeno è sicuramente quello della tecnologia dell’informazione, che ha permesso a molte aziende di tech cinese di insediarsi nel territorio “vergine” africano, e di fornire servizi di base come linee telefoniche, wifi e abbonamenti a prezzi vantaggiosi anche nelle zone più remote del paese. 

Una delle aziende che ha destato di più l’interesse dell’opinione pubblica è sicuramente Huawei, che è entrata nel mercato africano nel 1998 e da allora ha concentrato la maggior parte dei suoi investimenti esteri nel continente, soprattutto nella regione subsahariana. La strategia di Huawei in Africa è iniziata prima con l’analisi target del mercato africano e la proposta di prodotto customizzati. In seguito si è evoluta con il trasferimento della produzione e la creazione di filiali in Africa, dove vengono offerti programmi di formazione strutturati per la forza lavoro assunta nel paese ospitante, come ingegneri, operai, informatici. I Paesi di maggiore interesse per l’azienda sono stati Nigeria, Egitto, Kenya, Sud Africa, Angola, Tunisia, Repubblica Democratica del Congo e Marocco, dove Huawei ha finanziato la costruzione di reti 5G, attività di ricerca e sviluppo e marketing.

In molti si sono chiesti se la strategia delle aziende cinesi come Huawei in Africa possa essere considerata una nuova forma di colonialismo. Sono state quindi esaminate le politiche di sviluppo sostenibile e responsabilità sociale d’impresa di Huawei adottate nel contesto locale, il loro impatto rispetto ai concorrenti locali ed esteri nel mercato e la percezione africana del business cinese nel continente. Si può affermare quindi che vi siano due parametri diversi da analizzare, uno macro e uno microeconomico.

A livello di macroanalisi, l’iniziativa cinese in Africa non può essere considerata né una forma di colonialismo tradizionale né una forma di neocolonialismo; piuttosto, si tende a parlare di “espansionismo tecno-distopico”, a causa della tecnologia di sorveglianza esercitata dalle società del tech cinesi in Africa e dell’influenza dei media cinesi nel continente. 

Considerando la microanalisi, nonostante i notevoli investimenti in programmi di formazione e ricerca e sviluppo, il business di Huawei in Africa non è ancora percepito come sostenibile sia dalla comunità ospitante che dalle aziende locali presenti sul mercato. In primo luogo a causa della reputazione negativa dei prodotti, secondo per le condizioni di lavoro insostenibili e terzo per il basso livello di spillover di conoscenza rivolto dalle imprese cinesi al mercato africano. Per spillover effect si intende la transizione di competenze che può avvenire – soprattutto nel settore tecnologico – da professionisti stranieri di un determinato paese ai professionisti locali. Nelle aziende africane lo spillover presenta ancora un indice molto basso, tanto che spesso i ruoli di vertice vengono occupati da personale cinese.

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Di Elisa Cirrincione*

*Appassionata di cultura cinese e arti marziali fin da piccola, sceglie la Cina come professione. Si laurea in lingua cinese per il commercio all’università Ca’ Foscari di Venezia, durante la quale trascorre un periodo in Cina grazie a una borsa di studio. Lavora durante gli studi nel settore turistico e customer service e in seguito si specializza in digital export management grazie ad un master promosso dall’ICE. Oggi lavora nel dipartimento di vendite del settore marmo di lusso e continua a sperare in una riapertura cinese.