Shi Yang Shi: intervista a un italiano dal cuore di seta

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Shi Yang Shi, una delle voci più note della comunità cinese-italiana di seconda generazione, ci racconta la riscoperta delle sue radici e la costruzione della sua identità italiana. Per lui lo Ius Culturae è necessario per “fare gli italiani” di oggi e domani.


Quando è nata l’idea di questo libro?

Ho deciso di scriverlo dopo una riflessione lunga, perché ho notato mancava una voce della comunità cinese di seconda generazione che raccontasse la sua storia da emigrato e il suo percorso italiano. Prima avevo narrato le vicende di Shi Yang Shi (nome d’arte simile all’originale) solo con le attività del progetto di teatro indipendente Compost Prato e con il mio spettacolo teatrale “Tong Men-g/ArleChino”.

Il grande successo di questo spettacolo ha portato la tua storia in giro per i teatri d’Italia. In cosa si differenza invece questo libro?

Il libro è complementare allo spettacolo “Tong Men-g/ArleChino” scritto con Cristina Pezzoli. Lì si usava un linguaggio teatrale per andare fino ai miei trisavoli, che con altri miei antenati fanno parte dei sei personaggi della rappresentazione. Sulla carta invece ho provato a raccontare un conflitto più intimo tra la mia realizzazione personale e il mio orientamento sessuale. Il tutto succede in una famiglia di emigrati cinesi degli anni ’90, considerati all’epoca dagli italiani solo come venditori, non certo nell’ottica dell’immagine di “Grande Cina” che abbiamo oggi.

Come sono cambiate le aspirazioni degli immigrati cinesi in Italia, da quando eri piccolo ad oggi? E tu come sei percepito dai tuoi connazionali?

Tra le generazioni arrivate negli anni ’80 e ’90, quelli che si sono realizzati economicamente ma avevano una casa in Cina, alla fine ci sono tornati. Altri invece sono diventati molto italiani, apprezzano la qualità del cibo e dell’aria e tendono a tradire il concetto cinese di “morire in patria”, preferiscono restare perché i loro figli in Cina sarebbero disadattati. Poi ci sono i cinesi di seconda generazione nati in Italia, che partono da qualcosa che è stato costruito dai loro genitori e anche se sono 20enni hanno davanti a loro una prospettiva imprenditoriale forte. Infine abbiamo i ragazzi cinesi che amano l’Italia tanto da venire a studiare l’arte, la moda o la lirica, di questi un terzo decide di restare per lavorare e valorizzare la cultura italiana in cui si sono formati. Io per i cinesi sono una “banana”, giallo fuori e bianco dentro. Per me non è un insulto, ne sono orgoglioso. Mi sento italiano per i luoghi in cui ho vissito, il cibo, i valori e la cultura artistica che mi porto dentro, ma resto anche cinese per i bei ricordi della mia infanzia.

Nel libro affronti anche argomenti politici delicati: dalla Rivoluzione Culturale subita da tuo nonno alla lite con tua cugina, che criticava la Cina per i fatti di Piazza Tienanmen. Fin dove ti ha condotto questa analisi?

La celebre immagine dell’uomo davanti al carrarmato possiede una valenza simbolica trasversale epocale. Anche i miei aneddoti personali nel loro piccolo cercano di tendere ad una storia universale, che viene dai miei antenati, ma che è molto più antica di me o della cronaca del 1989. Tutto è legato all’esigenza di sentirsi qualcosa. I tanti italiani di origine straniera si possono rivedere in un ragazzo come me, in crisi per le contraddizioni di due culture e che riesce infine a trovare la pace. Voglio relazionarmi ai giovani emigrati, su come sia possibile gestire il loro desiderio di fare. L’istruzione è la chiave per essere qualcosa di più e cambiare il proprio destino. L’ho capito facendo il lavapiatti a 12 anni, conscio del fatto che esistesse qualcosa di meglio come la bellezza e la poesia, che potesse salvarmi.

Hai vissuto in prima persona l’incontro/scontro tra cinesi e italiani. Cosa ci unisce e soprattutto cosa dobbiamo migliorare?

La sovrapposizione di identità in lingue e sistemi culturali diversi, pur creando uno strappo indelebile quando ero ragazzino, è riuscita a mostrarmi anche le cose che abbiamo in comune. Il rispetto cinese verso gli anziani (pietà filiale) è molto simile al valore che gli italiani danno ai nonni. Cosa migliorare? Noto uno sganciamento tra i giovani italiani e le loro origini. I trentenni di oggi cresciuti nel benessere faticano a mettersi nei panni dei loro nonni, magari antichi emigrati e a fare una riflessione più ampia sul ruolo dei rifugiati. Allo stesso tempo, l’etica di “sangue e sudore” dei cinesi in Italia, che lavorano spesso senza tutelare i propri diritti di base può portarli a conseguenze tragiche, come il rogo avvenuto a Prato nel dicembre 2013. Dovremmo guardare insieme verso chi ci governa, per far sì che i diritti di lavoro e sicurezza vengano prima degli interessi dei vari soggetti economici (italiani e cinesi) dietro questi eventi.

Sei arrivato come clandestino nel 1990 e dal 2006 sei ufficialmente cittadino italiano, hai rinunciato al passaporto cinese (che non può essere doppio). Qual è la tua posizione nell’attuale dibattito sullo Ius soli e Ius culturae?

Lo Ius soli temperato è importante per garantire al futuro ragazzo italiano e alla sua famiglia delle certezze, ma soprattutto delle regole e i loro diritti e doveri. Credo che nell’opinione pubblica sia trascurato il vero valore dello Ius culturae: noi cinesi in Italia non dobbiamo sentirci diversi, se usiamo tra noi l’italiano per comunicare vuol dire che siamo italiani. L’accettazione di questo ci rende grati a questo territorio, ci fa assumere una responsabilità più profonda che si chiama restituzione. Gli oltre 281mila cinesi regolari nel nostro Paese sono per me un “nocciolo duro di democrazia per l’Italia”. Con la loro imprenditorialità possono essere un volano per il rilancio dell’economia. Ma tutto questo è possibile solo se c’è una appartenenza culturale appunto. Un proverbio cinese riassume questo concetto: qiú tóng cún yì cioè “cercare un terreno comune una volta accettate le differenze”.

Sei abituato a metterci sempre la faccia: in tv, al cinema, al teatro e ora su carta. Come ti sta ripagando la tua arte?

È molto claustrofobico quando l’arte prende pezzi di me. Per scrivere questo libro ho dovuto gestire le mie sofferenze interiori, come quando descrivo la mia prima volta. Volevo essere diretto, senza quel dire/non dire borghese che non apprezzo. Siccome è un libro per i giovani volevo che vedessero il mio percorso autentico, senza edulcorare niente, nemmeno il dolore di sentirsi soli e abbandonati senza neanche un’amica a cui confidare la scoperta della mia omosessualità. Quando invece ricevo doni dall’arte, mi succede all’improvviso. Ad esempio, dopo un mio spettacolo una signora italiana mi ha detto: “Mi hai fatto fare pace con i miei cinesini sotto casa. Dal tuo racconto dei ravioli che preparavi da tua nonna in Cina ho capito che il valore della famiglia per italiani e cinesi è uguale. Gli dirò di venire con me al teatro a vederti!” Questa cosa mi ha davvero lusingato e mi ha mostrato la comprensione reciproca che aveva creato la mia arte.

Nella narrazione descrivi molto bene la spaccatura creata dalla tua famiglia, che ha faticato ad accettare un figlio omossessuale attore invece che“drago” della finanza con moglie e figli. Cosa pensano i tuoi genitori di questo libro?

A differenza dello spettacolo “Tong Men-g”, per loro il libro non è fruibile, non c’è linguaggio corporeo, non c’è il cinese. Loro non leggono in italiano, quindi recentemente ho dovuto fare un pranzo di recupero della Festa della Luna e gli ho tradotto oralmente il capitolo sui ravioli, poi gradualmente arriverò alla parte più difficile da digerire per loro, ossia il mio coming out.

Anche la religione buddista ha illuminato il tuo percorso. Cosa ti ha insegnato il tuo viaggio in Tibet?

Dopo lo spettacolo su Matteo Ricci durante l’Expo di Shanghai nel 2010 mi sono recato in Tibet, portando sulle spalle il doppio lutto di un collega attore e di mio nonno materno. Una cosa mi stupì, in hotel riuscivo a sentire il richiamo del Muezzin. Ero nella culla del buddismo tibetano ma avevo sotto di me una moschea. Ho rilevato una grande libertà religiosa dentro e fuori il palazzo Potala. Sapevo che il Tibet era un tabù da come veniva raccontato dall’Italia, sembrava solo una terra schiacciata, invece ho trovato anche molta spiritualità e semplicità. Questo viaggio mi insegnato cosa vuol dire portare fino in fondo le cose che pesano, anche dopo un cammino tortuoso. Da lì mi sono deciso a finire gli studi alla Bocconi e mi sono lanciato senza esitazioni nella mia carriera artistica.

Oltre al libro “Cuore di seta” e al film “Brutti e cattivi” uscito da poco al cinema, quali sono i tuoi progetti per il futuro, professionali e personali?

A livello professionale vorrei scrivere o contribuire alla scrittura di un film, oppure avere un ruolo da protagonista che mi rispecchi, che faccia vedere non solo il potere economico dei cinesi ma anche quello culturale. Finora ho interpretato tutti gli stereotipi dei cinesi in Italia: lavapiatti, cuoco, mafioso, uomo d’affari, ma mai un barista, un avvocato o un medico. Sarebbe interessante andare oltre questi ruoli che si rivelano loschi. A livello personale invece, vorrei diventare padre. Ci sto pensando da molto tempo con il mio compagno Angelo, l’amore della mia vita.

di Marisa Petricca

[Pubblicato su Eastwest]