Sepak takraw e kabaddi: sport e identità culturale

In by Simone

Assediati dagli sport dell’omogeneità occidentale – il calcio su tutti – in Asia alcune pratiche ricreative tradizionali stanno riuscendo a sopravvivere all’avanzata della globalizzazione. Il sepak takraw nel sud-est asiatico e il kabaddi nel subcontinente indiano sfidano ora gli sport mainstream, forti di un’eredità culturale millenaria.
Per spiegare la popolarità mondiale del calcio, spesso si dice: basta un pallone, e ci possono giocare tutti. Discorso che può valere per le favelas brasiliane o le città africane, ma non in Asia. O almeno, non per riferirsi al football. Nel subcontinente indiano, alcune linee tracciate a terra sono sufficienti per giocare a kabaddi. E nel Sud-est asiatico, se c’è uno sport di massa perché basta una palla, o in questo caso anche una rete, quello è il sepak takraw. Dalla Birmania all’Indonesia, ma soprattutto in Thailandia e Malesia, impera uno sport che è stato descritto come un misto tra calcio, pallavolo, kung fu e badminton.

La palla usata è in corteccia di Malacca, o spesso ormai di plastica; ha più o meno la grandezza di quella della pallamano, 40 cm di circonferenza per 200 grammi. Due squadre, tre giocatori per parte, cercano di segnare un punto tirandola oltre la rete nel campo degli avversari, che tentano di fare lo stesso con un massimo di tre colpi: come nel volley, e con set di 21 punti. La differenza è che si può colpire la palla con tutto tranne le mani. Da qui palleggi di interno piatto, passaggi di ginocchio, di testa o di coscia, e spettacolari sforbiciate a mo’ di schiacciate, con acrobatici tentativi di “muro” dall’altro lato della rete. Per il tutto ci vuole una certa abitudine: l’occidentale che prova il suo primo colpo immancabilmente prova dolore nell’impatto con quella strana palla cava che sembra priva di rimbalzo.

La diffusione transnazionale di questo sport, in una regione dove gli orgogli patriottici la fanno da padrone, fa sì che le sue origini e perfino il suo nome siano oggetto di contesa. Sepak takraw è la denominazione sulla quale si sono messe d’accordo Thailandia e Malesia negli anni Sessanta dopo una lunga querelle. In malay, “sepak” è “calcio”, mentre in thailandese “takraw” (si pronuncia "takròo") è la palla usata. Nella pratica, nessuno lo chiama col nome ufficiale: in Malesia è “sepak raga”, in Thailandia semplicemente “takraw”, in Indonesia “rago”, in Laos “kator”, in Vietnam “da cau”.

Se nel Sud-est asiatico il calcio occidentale – e soprattutto il campionato inglese – è seguitissimo, nella pratica sportiva vince il “sepak takraw”: nei parchi di Kuala Lumpur, nei ghetti di Bangkok, nella pause dei manovali, sotto i cavalcavia, nelle campagne birmane, è quella buffa palla di simil-vimini che appassiona la gente. I thailandesi sono tradizionalmente quelli da battere: in 24 anni di Giochi asiatici hanno conquistato 18 medaglie d’oro su 27, e i malesi sono l’altra potenza regionale. Rivali acerrimi, ma ormai con un sogno in comune: vedere il “sepak takraw”, o comunque sia chiamato, promosso a sport olimpico.

Più a ovest, nel subcontinente indiano, la fama gestita in regime di monopolio dal cricket trova nel kabaddi un’alternativa, se possibile, ancora più alla portata di tutti. Praticato fin da piccoli nelle scuole indiane, grazie a una struttura minimalista e unisex (non serve alcuna attrezzatura o palla, ci possono giocare maschi e femmine con medesime regole), il kabaddi è uno sport di strategia, resistenza fisica e contatto.

Per giocare basta disegnare un rettangolo immaginario, dividerlo in due, e metterci due squadre nelle rispettive metà. L’obiettivo è mandare un “raider”, un cacciatore, nella metà campo avversaria, toccare un avversario e ritornare nella propria porzione di campo. Sembra facile. Provate però a farlo senza respirare, ripetendo la nenia “kabbadi, kabbadi, kabbadi” per tutto il soggiorno nella metà campo opposta, cercando di ritornare alla base evitando di essere placcati dall’intera squadra avversaria. Il tempo medio di resistenza in apnea di chi attacca, tra i professionisti maschi, è di 30 secondi; 18 per le femmine. A vederlo giocato dai bambini in giardino, può sembrare una tenera versione di “Ce l’hai”, ma mettete in un campo della pianura del Punjab sette energumeni punjabi per squadra e vedrete uno spettacolo incredibile di forza fisica e reattività.

Kabaddi, come spiegano gli esegeti della pratica sportiva locale, è uno dei pochi sport tradizionali indiani sopravvissuto alla globalizzazione, e gode di una popolarità enorme in Punjab, Tamil Nadu e Bengala. In Bangladesh, addirittura, è sport nazionale.

Si tratta di un gioco rurale, il gioco “dei poveri” per antonomasia, praticato tradizionalmente a piedi nudi sulla terra nuda dei campi da arare arare, ripulita da pietre e radici sporgenti. Molto più del cricket, il gioco dei colonizzatori in cui, ironia della Storia, ora i colonizzati eccellono, il kabaddi rappresenta molto di più l’identità “tradizionale” del territorio che ora chiamiamo India, esaltandone l’aspetto più proletario: quasi tutti i giocatori professionisti della nazionale indiana, ad esempio, hanno in comune umili origini contadine.

Dagli inizi degli anni Duemila, lo sforzo di portare lo sport in tv, la spettacolarizzazione delle competizioni per la gioia degli inserzionisti, ha investito anche il kabaddi. Le competizioni internazionali, che vedono la partecipazione di tutto il subcontinente più Giappone, Cina, Iran, Malaysia e i paesi interessati dalla diaspora indiana – Gran Bretagna, Germania, Canada e Usa su tutti – vengono ormai trasmesse in diretta tv, con un discreto seguito di pubblico. I pro, davanti alle telecamere, giocano in palazzetti al chiuso, su un campo di gomma, indossando divise con tanto di scarpini. Compromessi di comfort per abbracciare la globalizzazione e, con un po’ di fortuna, non estinguersi entro i confini del subcontinente.

Da esercizi marziali a pratica sportiva

Si dice che tutto nacque da un antico esercizio fisico dei militari cinesi, che si dilettavano a palleggiare un volano di piuma tra due persone. Adottato nel Sud-est asiatico in diverse versioni, quel passatempo diventò il sepak takraw – vero e proprio sport – con delle regole codificate per la prima volta a livello competitivo dall’allora Siam nel 1829. Ma la sua diffusione è certificata già da prima: nel Grand Palace di Bangkok, un dipinto murale raffigura il dio-scimmia induista Hanuman mentre gioca a sepak takraw con altri primati, e lungo lo stretto di Malacca ci sono testimonianze del gioco risalenti al Seicento.

Il kabaddi ha radici millenarie, nasce probabilmente nella preistoria dell’attuale India meridionale e, col tempo, si espande in tutto il subcontinente in diverse varianti. Con la dominazione britannica, lo sport viene adottato dall’esercito imperiale come passatempo salutare per le truppe ormai multiculturali, e si diffonde in tutte le colonie asiatiche della corona. La seconda ondata di espansione arriva con la migrazione dal subcontinente all’Eldorado occidentale di studenti e lavoratori, popolarizzando uno sport dalle origini umilissime, legato a doppio filo con lo yoga.

Per allenarsi all’apnea, infatti, il modo migliore è cimentarsi nel pranayama, esercizi per il controllo del respiro complementari alla pratica spirituale yogica. E gli indiani, per ovvie ragioni, di questo sport sono i fuoriclasse incontrastati. Dal 2004 a oggi si sono giocate sei Kabaddi World Cup: le hanno vinte tutte loro.

[Scritto per East; foto credit: cyrilleandres.com; latimes.com]