Impiegati che si tolgono la vita perché pressati dalla disciplina dell’azienda e altri che scendo in piazza per un aumento di salario. I lavoratori cinesi riempiono le pagine dei giornali e spingono le multinazionali a sedersi al tavolo della trattativa.
Dieci giorni di sciopero nello stabilimento di Foshan hanno costretto la Honda a sospendere la produzione di auto in tutti e quattro i suoi impianti in Cina. E dire che il colosso automobilistico era forte dei 59mila veicoli prodotti ad Aprile, il 29 percento in più rispetto l’anno passato, e aveva annunciato un piano da 93 milioni di euro per incrementare la produzione. “Stiamo negoziando”, ha assicurato Yasuko Matsuura, portavoce della casa automobilistica giapponese, “non è ancora finita”.
I duemila operai della fabbrica chiedono che il loro stipendio venga equiparato a quello dei lavoratori di altri stabilimenti Honda. Vorrebbe dire passare dagli attuali 1500 yuan mensili (circa 130 euro) a 2000-2500 yuan. O almeno questi sono le cifre riportate dai media cinesi, insolitamente attenti alla protesta, mentre i vertici dell’azienda hanno preferito declinare ogni commento sugli stipendi.
Scioperi e manifestazioni non sono nuovi nella Repubblica popolare, ma la prassi vuole che la stampa gli dedichi poca attenzione e li classifichi sotto al dicitura “incidenti di massa”. A fare la differenza sono questa volta la portata della protesta e il fatto che sia coinvolta un’azienda giapponese. L’ostilità dei cinesi verso il Sol Levante è latente. I rancori per l’occupazione e i crimini commessi dall’esercito di Tokyo tra il 1937 e 1945 continuano a pesare sulle relazioni tra i due paesi. Come accaduto in passato, i sentimenti anti-giapponesi rischiano di sfociare in proteste popolari.
Vecchie ruggini a parte, lo sciopero di Foshan può rappresentate una svolta nelle relazioni tra lavoratori e imprenditori in Cina. “L’organizzazione e le dimensioni della protesta costringeranno il sindacato cinese a cambiare e adattarsi all’economia di mercato”, ha detto al New York Times il professor Zheng Qiao dell’Istituto cinese per le relazioni industriali.
Bandite le organizzazioni autonome i lavoratori al di là della Muraglia sono ‘rappresentati’ dalla Federazione dei sindacati cinesi legata al Partito comunista al potere. “È difficile pensare a un sindacato che difenda realmente gli interessi dei lavoratori”, ha scritto Geoff Crothall del ‘China Labour Bulletin’, un’organizzazione non governativa di Hong Kong impegnata nella difesa dei lavoratori. Ma pur con un sindacato allineato alle posizioni dei manager, sono in aumento le “azioni di base”, ha continuato Crothall.
E alla poca indipendenza dei sindacati si aggiungono le lacune giuridiche. Le proteste operaie si collocano in una zona grigia della legge cinese. Nella Costituzione approvata nel 1982, figlia degli anni bui della Rivoluzione Culturale, il diritto allo sciopero non è sancito. Allo stesso tempo nessuna legge lo vieta esplicitamente.
Attratte dall’opportunità di poter impiegare un’abbondante forza lavoro a basso costo, le imprese straniere sono ora costrette a fare i conti con le rivendicazioni dei dipendenti. Con la crescita dell’economia i lavoratori pretendono che anche i loro stipendi si adeguino. Condizioni ben note alle autorità cinesi. A febbraio, a cavallo del capodanno cinese i governi locali hanno deciso di rivedere verso l’alto i salari minimi. La prima ad adottare il provvedimento è stata la provincia costiera del Jiansu, con un aumento del 12 per cento. Seguita da grandi città quali Pechino, Shanghai, Chongqing, Canton e Dongguan
E all’indomani del decimo suicidio tra i dipendenti dall’inizio dell’anno, la Foxconn ha deciso di aumentare del 20 per cento le buste page dei suoi dipendenti, che oggi guadagnano circa 900 yaun al mese. Una decisione che anticipa di qualche giorno l’aumento dei salario minimo deciso dal governo di Shenzhen, dove sorge il complesso industriale dell’azienda. E rivela la preoccupazione dei vertici per la cattiva pubblicità e le proteste degli attivisti per i diritti dei lavoratori. A cui si sono aggiunte le indagini avviate dai colossi dell’elettronica per i quali la Foxconn produce componenti: Apple, Dell e Hewlett-Packard.
Ma, spiega Crothall le protesta alla Honda e alla Foxconn sono diverse. Se queste ultime sono gesti di disperazione individuale, quelle contro l’azienda automobilistica sono azioni collettive e unitarie.
[Pubblicato su Il Riformista del 29 maggio 2010] [Foto da China Daily]