Come se il nostro paese importasse mozzarella: presto, il Dragone sarà il primo importatore mondiale di riso. Lo rivelano le stesse fonti di Pechino, secondo cui sono i chicchi stranieri a sfamare una popolazione sempre meno contadina e sempre più urbanizzata. Il paese in cui si dice il riso sia nato nel VI millennio a.C. lo compra da qualcun altro.
Le importazioni saliranno quest’anno a 3 milioni di tonnellate dai 2,34 dell’anno scorso e così la Cina scavalcherà la Nigeria al primo posto. Il rapporto che lo prevede è statunitense, rilasciato dal United States Department of Agriculture (USDA), ma i media cinesi riprendono la notizia dandole enfasi e senza smentirla. Il che rivela che c’è de vero. Sta di fatto che anche in base ai dati ufficiali cinesi, nei primi tre mesi dell’anno le importazioni di riso sono aumentate di un incredibile 192 per cento rispetto a un anno fa, raggiungendo le 690mila tonnellate.
Come la Cina sia diventata importatrice netta dell’alimento base di oltre metà della popolazione mondiale ha poco a che fare con limiti naturali e molto con le leggi dell’economia globalizzata. Basti pensare che per l’intero quinquennio che si è concluso nel 2011, la Cina ha importato “solo” 450mila tonnellate di riso l’anno. Alla radice dell’inedito problema esploso nell’ultimo biennio c’è infatti la differenza di prezzo tra i mercati nazionali e globali.
Il punto è che, negli ultimi anni, la produzione di riso a livello internazionale è aumentata, mentre il consumo è diminuito. Per la più scontata legge della domanda e dell’offerta, il prezzo è sceso. Così, il governo cinese ha deciso di proteggere la produzione interna contravvenendo le leggi di mercato e fissando un prezzo minimo. Di fatto, i prezzi del riso domestico, artificialmente alti, incoraggiano molte imprese cinesi a importare quello meno costoso dall’estero.
L’output di riso a livello internazionale è previsto per quest’anno in aumento del 2 per cento anno su anno, per un totale di 479 milioni di tonnellate. In tal caso, il 2013 sarebbe l’ottavo anno consecutivo di aumento delle rese di riso, secondo l’USDA. Le scorte globali hanno raggiunto 107,8 milioni di tonnellate, il livello più alto dal 2002.
La stessa Cina ha da parte sua collaborato all’eccesso di offerta globale. Così il Dragone si trova nella paradossale situazione di produrre sempre più riso e di importarne in quantità sempre maggiore. Il paradosso è ovviamente l’ennesima arma nell’arsenale di quanti spingono per ulteriori riforme di mercato: basta interventi dello Stato, lasciate fare alla “mano invisibile”.
Bisogna in questo senso pensare al Partito comunista cinese come a un organismo complesso dove convivono ultraliberisti più radicali dei “Chicago Boys” e nostalgici dell’egualitarismo maoista. Tra i due estremi esiste un arcobaleno di gradazioni, con ulteriori divisioni trasversali date da affiliazioni familiari, politiche, di status, di semplice amicizia.
Su questo sfondo complesso, la leadership cerca in genere di mantenere una rotta coerente, finalizzata alla conservazione del potere e allo sviluppo “armonico” (cioè, soprattutto “stabile”) del Paese. Così, le graduali aperture di mercato si alternano con il controllo politico, per evitare eccessivi strappi destabilizzanti.
Un procedere di questo tipo deve aver suggerito il controllo politico dei prezzi del riso, ma in un contesto sempre più globalizzato, dove quello che costa troppo in casa si può comprare fuori a miglior prezzo, la manovra si rivela oggi controproducente. Intervistato da China Daily, il consulente dell’agenzia Beijing Orient Agribusiness, Ma Wenfeng afferma che “il governo dovrebbe permettere che il prezzo di acquisto abbia una certa flessibilità, di modo che possa variare in relazione all’andamento del mercato internazionale”.
Secondo gli analisti, all’aumento dei prezzi del riso cinese rispetto a quello internazionale ha inoltre contribuito, seppure in maniera minore, il generale aumento del costo del lavoro. Anche questo è il segno di una Cina che cambia: sempre meno produttrice a buon mercato e sempre più consumatrice che mette mano al portafoglio.
[Scritto per il Fatto quotidiano; foto credits: Greenpeace]