Pandemia, tensioni, post Covid: il 2020 di Cina e Asia

In Asia Centrale, Asia Meridionale, Asia Orientale, Cina, Relazioni Internazionali, Sud Est Asiatico by Lorenzo Lamperti

Primi giorni di gennaio. Mancano pochi giorni alle elezioni presidenziali di Taiwan. I giornalisti che arrivano all’aeroporto di Taipei, compreso chi scrive, notano dei termoscanner. “Si misura la temperatura di chi arriva dallo Hubei”, viene spiegato, dove nei giorni precedenti sono stati registrati casi di “polmoniti anomale”. Sembra un decennio fa, ma il 2020 era iniziato. E ora che in qualche modo siamo arrivati alla fine, volgiamo un attimo lo sguardo a questi 365, pardon 366, giorni da tregenda e alla loro imprevista e imprevedibile sceneggiatura. A livello geopolitico, una sceneggiatura che non racconta una nuova storia ma semmai estremizza ancora di più le caratteristiche di quella che si stava già raccontando negli anni precedenti, le cambia lo stile, la rende improvvisamente più rapida. Una sceneggiatura che resta irrisolta, così come ampiamente irrisolta resta la crisi pandemica, dalla quale però dopo il primo tempo (e mezzo) si possono intravedere alcune tendenze narrative. Nelle quali il ruolo di attore protagonista viene assunto con decisione dalla Cina, con il resto dell’Asia che assurge sempre più a palcoscenico primario a livello globale.

CINA

Il 31 dicembre 2019 le autorità cinesi informano l’Organizzazione mondiale della sanità che a Wuhan si sono verificati una serie di polmonite dalle cause misteriose. Il 30 dicembre 2020 Cina e Unione europea hanno annunciato la firma di un accordo politico sugli investimenti, che dovrà però essere ratificato dal Parlamento europeo. Un mese e mezzo prima la Cina è entrata in un altro accordo multilaterale, il Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), che riunisce oltre a Pechino anche Giappone, Corea del sud, Australia, Nuova Zelanda e i dieci paesi dell’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico (ASEAN). Sembrava dover essere l’anno in cui la Cina veniva isolata dal mondo (quantomeno dall’occidente e dai suoi cosiddetti like-minded partner), ma il segnale che arriva al suo epilogo è di segno opposto.

Wuhan

Il 7 gennaio confermano di aver identificato un nuovo tipo di coronavirus della stessa famiglia della Sars. Il 20 gennaio, dopo quei 13 giorni di incertezza che costituiscono la principale base d’accusa di chi ritiene la Cina in qualche modo responsabile della diffusione del virus, Xi Jinping parla per la prima volta dell’epidemia. Tre giorni dopo Wuhan inizia il suo lockdown e il 6 febbraio lo stesso Xi dichiara guerra al “demone” del virus. Il cambio di registro narrativo inizia qui, ma in Europa e negli Stati Uniti non se ne accorge nessuno. Si ritiene ancora che il nuovo coronavirus sia soprattutto un “affare cinese“, un “virus cinese”, persino il cigno nero di Xi e del Partito comunista. Donald Trump esprime parole di elogio e incoraggiamento per il “collega” a pochi giorni di distanza dalla firma della “fase uno” della tregua sulla guerra commerciale. Molta forma, poca (o nulla) sostanza. L’Italia accelera la sua retromarcia sulla Via della Seta, cominciata già nei mesi precedenti dopo la fine del governo gialloverde, e dopo essere stato il primo paese del G7 ad aderire alla Belt and Road diventa il primo a chiudere i voli diretti con la Cina.

Il cigno nero cambia stagno

Febbraio. Il mondo (non l’Asia, che già sapeva e si era mossa da prima) si accorge che pensare che l’epidemia potesse restare una questione cinese o asiatica era una pia illusione. Gli stessi errori, gli stessi ritardi che si erano visti a Wuhan si ripetono a varie latitudini, con la differenza che la guerra viene (almeno inizialmente) giocata senza dispositivi di protezione. D’altronde, come si fa sfuggire un membro del governo Conte bis parlando con la stampa americana, quando si guardava a quanto accadeva a Wuhan si pensava fosse “un film di fantascienza”.

A inizio marzo inizia a essere chiaro che a pagare le maggiori conseguenze di quella che nel frattempo è diventata una pandemia non saranno la Cina e Xi Jinping, quantomeno nel breve periodo, ma altri. Per esempio, Donald Trump (ne scrivevo qui). Il 10 marzo il presidente cinese compie il primo viaggio fuori da Pechino dall’inizio della crisi. Va a Wuhan e inizia a cantare vittoria. Pechino cambia completamente ruolo nella sceneggiatura pandemica: da grande malato diventa grande guaritore. Viene lanciata (o meglio rilanciata) la Via della Seta sanitaria. Il Dragone sembra già pronto per mettersi alla guida del post Covid, con i paesi occidentali (e non) a celebrare gli aiuti sanitari ricevuti (o comprati). Anche perché Cina e Asia orientale si stanno dimostrando più pronte ed efficaci a combattere o prevenire la diffusione del virus, nonostante il cosiddetto “modello cinese” non fosse l’unico a funzionare nella regione (ne ho scritto qui).

Polarizzazioni

Ma ad aprile, con l’avvicinarsi della campagna elettorale per le presidenziali di novembre, il clima negli Stati Uniti cambia. Quello che tutti gli osservatori di cose asiatiche sapevano già da anni si manifesta in tutta la sua evidenza: la guerra cosiddetta commerciale era una definizione molto riduttiva della contesa tra la prima superpotenza e la seconda aspirante tale. La sfida è tecnologica, geopolitica, retorica e investe svariate dimensione del rapporto bilaterale. Washington alza la pressione sui partner europei e non solo, chiamando a una scelta di campo che nessuno vuole compiere. E’ il momento di massima polarizzazione geopolitica e retorica.

Viaggi e messaggi di Xi

Ed è in questo momento che il governo cinese accelera a sua volta andando in una direzione che era già chiara sin dall’avvento di Xi Jinping, della Belt and Road e del Made in China 2025: autarchia tecnologica, autosufficienza strategica, risoluzione dei nodi interni. Lo Shaanxi completa un ideale tris di visite e di messaggi simbolici da parte di Xi, a uso e consumo non solo dei cittadini ma anche dell’élite politica del Partito comunista. Prima trasferta: Wuhan. Recandosi nella città epicentro originario dell’epidemia Xi voleva comunicare che (almeno per ora) il “demone” è sconfitto e la situazione sanitaria sotto controllo. Seconda trasferta: Zhejiang, provincia ricca che ha fatto fare il salto di qualità a Xi con la sua lotta alla corruzione, nonché nucleo politico in cui ha costruito la sua “squadra” di fedelissimi. Una trasferta con tre tappe: Ningbo, grande porto con funzione importante per l’export, Hangzhou, la città di Alibaba, e Yucun, il piccolo villaggio sede di un celebre discorso nel 2005. Il messaggio in questo caso è doppio: “l’economia deve ripartire” (attraverso la Belt and Road e l’innovazione tecnologica) e “sono quello di prima”. Con la stessa voglia di combattere la corruzione e con la stessa truppa di alleati al fianco. La terza trasferta, quella nello Shaanxi, ha lo scopo di ribadire una sorta di ritorno (o di vicinanza) alle origini, garantendo la lotta contro disoccupazione e povertà. In sintesi, una sorta di tripla rassicurazione: sanitaria, economica, sociale.

A fine maggio si arriva alle “due sessioni”. Durante l’appuntamento politico viene annunciata la legge sulla sicurezza nazionale a Hong Kong, oltre a una serie di altre cose tra cui il codice civile (ne ho scritto qui). Di fatto è la fine del modello “un paese, due sistemi”, applicato all’ex colonia britannica. Una fine decretata  anche dallo stesso Trump.

Grattacapi asiatici

Nel frattempo, la tensione si alza anche con i “vicini di casa“. A partire dall’India, con le storiche scaramucce lungo l’enorme confine conteso che sfociano in uno scontro mortale che ne causerà uno diplomatico ancora non risolto. Il Giappone lancia il programma China Exit e aumentano le frizioni sulle isole Senkaku/Diaoyu, i rapporti con l’Australia iniziano a precipitare. A tutto questo si aggiunge (o meglio, finisce sotto i riflettori) il tema del Mar Cinese Meridionale dopo la “chiamata alle armi” di Mike Pompeo rivolta ai paesi del Sud-est asiatico.

I tavoli su cui giocare iniziano a diventare troppi, mentre all’interno oltre a Hong Kong e Xinjiang si aggiunge il tema della Mongolia interna, con la stretta sulla minoranza linguistica che porta qualche inedito mugugno in Mongolia (dove tra l’altro a fine giugno si è votato, senza sorprese) durante una visita di Wang Yi a Ulan Bator.

La nuova lunga marcia

A luglio inizia l’avvicinamento politico al quinto Plenum. Xi dà il via alla “lunga marcia” verso il suo terzo mandato. E lo fa con una nuova battaglia anticorruzione, annunciata da uno degli “ufficiali” del PCC in maggiore ascesa, vale a dire Chen Yixin, segretario generale della Commissione centrale per gli affari politici e legali e fedelissimo di Xi. Chen, che ha assunto l’incarico nel 2018, è stato inviato anche a gestire l’epidemia nella provincia dello Hubei, l’epicentro iniziale della pandemia da coronavirus. Il suo arrivo a Wuhan, avvenuto nella prima metà di febbraio, ha rappresentato un momento cruciale per la retorica del partito sul Covid-19. Mandare Chin significava mandare il messaggio che il governo centrale prendeva con ancora più decisione in mano il timone, soppiantando quello locale. Uno shift narrativo cruciale. E’ qui, con una nuova task force per la “sicurezza politica” che prendono corpo i “dieci comandamenti” di Xi in materia di sicurezza nazionale di cui abbiamo parlato nelle pillole asiatiche del 20 dicembre.

Xi al sud: economia e partito

Si arriva a fine ottobre e al quinto Plenum, pochi giorni prima delle elezioni americane e pochi giorni dopo un simbolico viaggio di Xi nel Guandong, mai una meta banale per i presidenti cinesi. Da qui Deng Xiaoping diede il via alle riforme e all’apertura degli anni Ottanta, a partire dall’implementazione delle zone economiche speciali di cui Shenzhen rappresenta il caso più emblematico. Sempre da qui, nel 1992, Deng trovò la formula giusta per aprire la stagione “del miracolo” della crescita e dello sviluppo, sintesi programmatica della dialettica tra conservatori e riformatori del pre Tiananmen, in una fase che aprì alla deregolarizzazione del mercato del lavoro, privatizzazioni e la riforma fiscale del 1994. Ed è sempre qui che Xi era stato altre due volte, nel 2012 e nel 2018, per dare prima la svolta “interna” che ha portato al Made in China 2025 e poi per il colossale progetto di integrazione regionale (che coinvolge Hong Kong) della Greater Bay Area. Ancora da qui, Xi cerca di completare la trasformazione da fabbrica del mondo a colosso tecnologico, in una Cina che ora non nasconde più le proprie ambizioni, e allo stesso tempo non può pensare, come nel 1992, di muoversi senza che gli occhi degli Usa puntati addosso. E con uno Stato che torna presente come non mai nei processi economici, al termine di quel “ventennio di opportunità strategiche” profetizzato da Jiang Zemin nel 2002 e a pochi mesi dal centenario del Partito, che sarà celebrato nel luglio 2021. Lo dimostra (anche) la vicenda dell’ipo di Ant e l’indagine dell’antitrust aperta su Alibaba. Messaggio chiaro: nessuno è al di sopra del Partito.

Quinto Plenum

Al Plenum viene approvato il nuovo piano quinquennale, che in realtà è un piano quindicennale con vista 2035 (tutto qui nel dettaglio). Le parole chiave sono: doppia circolazione, autosufficienza tecnologica, consumi interni, crescita di qualità. Il completamento della trasformazione di una Cina in cui il ruolo di Xi non appare in discussione. Anzi, sembra quantomeno probabile che al congresso del 2022 il presidente possa rafforzare ulteriormente la propria posizione alla guida del partito. Gli indizi di una sua permanenza a lungo termine appaiono sempre più chiari. A partire dall’insistenza sul 2035 come orizzonte temporale delle nuove strategie di sviluppo, per passare alla perdurante assenza di un erede designato, fino alle mancate nomine nella commissione militare, la cui posizione di vicepresidente è considerata di solito una sorta di anticamera alla possibilità di diventare leader del partito.

Elezioni Usa

Pechino assiste poi col ghigno all’iniziale caos delle elezioni americane, così come aveva fatto con le proteste seguite all’uccisione di George Floyd, utili all’approccio da “what about” quando si parla di diritti umani e di Xinjiang. Un bis di Trump, ottimo asset non completamente sfruttato dalla Cina nei quattro anni che si concluderanno il prossimo 20 gennaio, poteva essere strategicamente un vantaggio per Pechino, che ha comunque intrapreso una sua traiettoria (come tutta l’Asia) che non cambia a seconda di chi siede alla Casa Bianca.

Cina post Covid

La traiettoria diplomatica della Cina e la sua visione del futuro post Covid traspare dai discorsi di tre figure importanti, riportati nelle pillole asiatiche del 13 dicembre: Chen Yixin, di cui abbiamo già parlato, Le Yucheng, viceministro degli Esteri per cui molti prevedono un futuro “luminoso” e He Yiting, vice presidente esecutivo della Scuola centrale del Partito comunista.

E’ una Cina che conquista lo spazio, si presenta come campione del multilateralismo, cancella la povertà assoluta, silenzia le proteste a Hong Kong, punisce a livello politico e commerciale chi le si oppone. Uno dei segnali visivi più evidenti di questa ambizione ritrovata (o meglio, anzi molto meglio, coltivata nel tempo) è rappresentato dalle immagini della China National Space Administration che hanno mostrato la sonda Chang’e-5 piantare la bandiera nazionale cinese sulla Luna.

Ulteriore tassello al grande ringiovanimento della nazione è l’annuncio dell’eliminazione della povertà assoluta. Obiettivo che non si poteva mancare, nonostante il Covid, e che proietta la Cina a diventare una società moderatamente prospera nel 2021. Dal punto di vista economico, il manifatturiero cinese di novembre è arrivato al ritmo più alto dell’ultimo decennio secondo gli indici di Caixin. Certo, non tutto luccica: le differenze tra nord e sud, tra coste ed entroterra, sono un problema che appare ancora di difficile soluzione.

Ma è una Cina ha ha fiducia in se stessa, e che fa pesare la propria storia (da qui l’insistenza di Xi sul ruolo dell’archeologia) e punta sull’innovazione, posizionandosi prima al mondo per brevetti di intelligenza artificiale. E’ una Cina che non si preoccupa delle critiche esterne e condanna con Joshua Wong e Agnes Chow i volti più noti dell’attivismo pro democratico di Hong Kong, manda in carcere il tycoon Jimmy Lai, e implementa nuove leggi patriottiche dopo aver posticipato di un anno le elezioni inizialmente previste per il settembre del 2020 e soprattutto dopo aver smembrato l’opposizione.

E’ una Cina che non accetta più di essere raccontata dagli altri. Da qui le condanne di blogger come Zhang Zhan all’interno e la diplomazia dei “lupi guerrieri” all’esterno. Ma allo stesso tempo è anche una Cina che conclude con successo il negoziato politico sugli investimenti con l’Unione europea, dopo aver firmato quello sul RCEP che riunisce 15 paesi dell’Asia Pacifico. Nonostante l’esultanza dei media cinesi, l’accordo dovrà essere passato al vaglio del parlamento europeo. Ma intanto il segnale che ne deriva, alla fine di questo 2020 sull’ottovolante, è inequivocabile: la Cina si propone come pilastro del multilateralismo e ne propone con sempre maggiore convinzione una sua versione di fronte a quelle istituzioni democratiche occidentali che Pechino, dopo il quarto segnale o vantaggio strategico (11 settembre 2001, crisi finanziaria 2008, elezione di Trump e infine, appunto, il virus), percepisce in irreversibile decadenza.

 

TAIWAN

L’anno di Taiwan inizia con le elezioni (che ho potuto seguire da Taipei). Sabato 11 gennaio Tsai Ing-wen si conferma presidente con il record di voti. Un risultato impronosticabile un anno prima, quando dopo la batosta alle elezioni locali di fine 2018 si era dimessa da presidente del Democratic Progressive Party e sembrava in discussione persino la sua ricandidatura. La non esclusione dell’utilizzo della forza da parte di Xi Jinping nel discorso di inizio gennaio 2019 e soprattutto il caos di Hong Kong hanno cambiato tutto, grazie anche a un voto che si è spostato sul tema identitario (terreno molto più scivoloso per il Guomindang) e alla scelta di un candidato sbagliato da parte dei rivali, vale a dire Han Kuo-yu, che a giugno finisce anche per essere rimosso da sindaco di Kaohsiung, la seconda città dell’isola.

Il secondo insediamento di Tsai è arrivato il 20 maggio, con  una Taiwan più forte, ma non abbastanza da conquistare la partecipazione alla 73esima assemblea dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Dopo una prima fase di contenimento epidemico, Taipei è passata a una forte estroversione diplomatica, con il lancio della campagna di aiuti “Taiwan Can Help”, piccola ma efficace risposta alla Via della Seta sanitaria, e un primo invio di 10 milioni di mascherine tra Europa, Stati Uniti e altri paesi colpiti dalla pandemia.

Le tensioni con Pechino

Non a caso, pochi giorni dopo il secondo insediamento di Tsai, è arrivato l’avvertimento del generale cinese Li Zuocheng, capo del dipartimento di staff congiunto e membro della commissione militare centrale. Tanto per intenderci, sopra di lui ci sono solo Xi Jinping (presidente della commissione oltre che della Repubblica Popolare), e i due vice presidenti Xu Qiliang e Zhang Youxia. E che cosa ha detto Li Zuocheng? Ha dichiarato che “se la possibilità di una riunificazione pacifica sarà perduta, le forze armate popolari, con l’intera nazione, incluso il popolo di Taiwan, prenderanno tutte le misure necessarie per distruggere risolutamente eventuali trame o azioni separatiste”. Un messaggio che segue tre binari retorici: il primo verso Taipei (“non esagerate”), il secondo verso gli Usa (“siamo pronti a difendere i nostri obiettivi storici e strategici, il secolo dell’umiliazione è finito da un pezzo”), il terzo verso l’interno (“state tranquilli, nessuno ci metterà i piedi in testa”).

Nella seconda parte dell’anno sono aumentati gli episodi di tensione sullo Stretto. Nulla di inedito, sia chiaro. Collegare ogni passaggio di navi cinesi o americane nelle vicinanze di Taiwan come un segnale di guerra o come un fatto inedito è un errore, sono cose che accadono da decenni. La differenza non è nella qualità ma nella quantità degli episodi stessi che rende meno improbabile un “incidente” passibile di conseguenze. A partire dalle “incursioni aeree” dell’Esercito popolare di liberazione, che non le ritiene tali in quanto non considera Taiwan dotata di uno spazio aereo distinto da quello cinese.

La sensazione è che la Repubblica Popolare, dopo aver “risolto” la pratica Hong Kong, si stia progressivamente concentrando su Taiwan, obiettivo ultimo della riunificazione nazionale da completare entro il centenario del 2049 (ma nei piani di Xi entro il 2035). Da qui anche la “zona grigia” a livello militare su cui si lavora in prossimità dello Stretto. Da qui una serie di campagne mediatiche che prendono di mira (oltre a singoli cittadini taiwanesi) il DPP, col quale il dialogo, quantomeno a livello ufficiale, appare impossibile. Tsai, dipinta come indipendentista ma in realtà una fautrice dello status quo, vuole un dialogo ma tra pari, senza riconoscere il celeberrimo consenso del 1992 che stabiliva l’esistenza di un’unica Cina ma “con diverse interpretazioni”, come ama(va?) ripetere il Guomindang. Dall’altra parte il PCC chiede come precondizione al dialogo l’accettazione di quel principio.

Al momento le armi a disposizione di Pechino sono limitate, anche perché tutti i sondaggi danno una esponenziale crescita del sentimento identitario taiwanese. Il tentativo è quello di far funzionare una manovra a tenaglia che dall’esterno faccia sentire Taiwan e i taiwanesi insicuri e non protetti dal governo DPP (da qui le azioni a livello militare e diplomatico), dall’altra con il nuovo Guomindang di Johnny Chiang che dipinge Tsai come troppo timida, per esempio sul tema delle relazioni con gli Usa.

Il triangolo con gli Usa

Da parte sua, nel 2020 Washington ha usato Taiwan come pungolo nei confronti della Cina. Aveva promesso di aiutare Taipei a rientrare alle riunioni dell’Oms, salvo poi uscirne lui stesso. Ha imposto il ban all’export di chip e semiconduttori verso Huawei, cliente fondamentale per Tsmc, la principale fonderia mondiale che per Taipei rappresenta non solo un pilastro a livello economico, ma anche diplomatico. Seppure il dialogo intrastretto sia azzerato a livello politico sin dall’elezione di Tsai Ing-wen nel 2016, il ruolo di TSMC aiutava Taiwan a essere fondamentale per Pechino, che nel colosso di Hsinchu aveva un tassello imprescindibile della sua catena di approvvigionamento tecnologica. La cinese SMIC ha nominato Chiang Shang-yi, ex braccio destro del fondatore della taiwanese TSMC, nel suo board. Una mossa strategica che ribadisce ancora una volta la centraltà di Taiwan in questa partita. Proprio per questo, tra l’altro, un commento pubblicato sul New York Times definisce Taipei “il luogo più importante del mondo”.

Le recenti vendite di armi e visite ad alto livello del segretario alla Salute Alex Azar e del sottosegretario per gli affari economici Keith Krach hanno acceso ancora di più la luce dei riflettori su Taiwan. Sull’isola c’è un vecchio adagio che recita: “Dagli Stati Uniti abbiamo bisogno di una relazione stabile e duratura, non di un amore appassionato e imprevedibile”. Ecco, se da una parte è innegabile che le azioni di Trump abbiano portato Taiwan al centro del dibattito, dall’altro hanno aumentato considerevolmente i rischi. Tanto da far credere ad alcuni analisti che Formosa possa essere la valvola di sfogo di un confronto indiretto o a bassa intensità tra le due principali potenze. Alle spese, appunto, di Taipei, che non vorrebbe o non dovrebbe farsi identificare troppo come la “punta del pennarello” delle strategie anti cinesi di Trump.

Taipei potrebbe anche raggiungere un importante obiettivo a livello economico. Per la prima volta in quasi 30 anni, nel 2020 la crescita economica dovrebbe superare quella della Cina. Le previsioni segnalano un tasso di crescita nell’isola del 2,5% quest’anno mentre Pechino crescerà intorno al 2%, sebbene il governo di Pechino non abbia ancora pubblicato i dati ufficiali. A livello interno, il DPP si è ripreso Kaohsiung alle elezioni del 15 agosto organizzate dopo la rimozione di Han, mentre Tsai ha superato indenne le polemiche per la nomina di Chen Chu alla guida dello Yuan di controllo.

 

GIAPPONE

Per il Giappone doveva essere l’anno dell’ambizione ritrovata. Abe Shinzo aveva in programma di proseguire il processo di trasformazione del paese da osservatore ad attore geopolitico a tutti gli effetti. Con tanto di Olimpiadi di Tokyo come fiore all’occhiello e sua eredità politica, mentre si sarebbe cercato allo stesso modo un erede in carne e ossa. E’ andata così solo in parte. Abe ha dovuto farsi da parte per il riacutizzarsi di un problema di salute che lo aveva già costretto a dimettersi durante il suo primo mandato da primo ministro. Si è chiusa così una lunga fase di stabilità che il Giappone non conosceva da decenni a livello politico, visto che Abe era alla guida del governo dal 2012.

L’arrivo di Suga

Al suo posto, la scelta è caduta su Suga Yoshihide, che ha battuto i colleghi del partito liberaldemocratico Kishida Fumio e Ishiba Shigeru. Si tratta di una scelta nel segno della continuità, visto il rapporto profondo che lega Suga, 71 anni, ad Abe, che ha guidato il Giappone per quasi otto anni. Il prossimo primo ministro nipponico ha una particolarità: la sua estrazione sociale. Suga proviene infatti da una famiglia di agricoltori, e non da una dinastia politica come accaduto ai suoi predecessori, in primis allo stesso Abe.

Secondo diversi analisti, tra cui il professore Nakayama Toshihiro, politologo della Keio University di Tokyo, Suga sarà un Abe 2.0. Ma il riacutizzarsi della pandemia da Covid-19, così come una cena di gruppo durante l’emergenza sanitaria, hanno abbassato la popolarità di Suga, che ora vede vacillare la possibilità di restare alla guida del partito e del paese anche dopo le elezioni generali che dovrebbero tenersi il prossimo ottobre (a meno di voto anticipato). Sul fronte interno, si segnala anche il trionfo di Koike Yuriko alle elezioni locali di Tokyo.

Rapporti asiatici

A livello di politica estera, Suga pare intenzionato a seguire le strategie di Abe. Il suo primo viaggio all’estero è stato in Vietnam e Indonesia, due paesi chiave dell’area ASEAN. Una “missione corazzata” che ha portato in dote degli accordi difensivi e militari, sulla traccia degli accordi sottoscritti nei mesi precedenti con Australia e India. A pochi giorni di distanza, il premier australiano Scott Morrison è stato il primo leader straniero ricevuto a Tokyo da Suga. Ma il rafforzamento della cooperazione militare tra le potenze medie asiatiche, così come quella in sede Quad (il Quadrilatery Dialogue Tokyo-Canberra-Nuova Delhi-Washington) non significa che il Giappone voglia lo scontro con la Cina. Tutt’altro. Tokyo con la Cina ha un rapporto molto complesso di competizione strategica ma continua a perseguire con essa obiettivi commerciali e soprattutto non vuole mettere a repentaglio la sicurezza dell’area. L’ipotesi trumpiana di una Nato asiatica non è sul tavolo.

Rallenta la diplomazia con la Cina

Innegabile comunque lo stop sulla strada del grande disgelo cominciato tra 2012 e 2013 con l’arrivo al potere di Abe e Xi. Il coronavirus ha comportato il rinvio prima e la cancellazione poi (su richiesta dello stesso partito di maggioranza) della visita a Tokyo del presidente cinese, nonché al lancio del China Exit, vale a dire un programma di incentivi per le aziende nipponiche presenti in Cina affinché spostino la produzione in altri paesi asiatici. Tokyo è stata più vocale che in passato sui temi più sensibili per Pechino: ha condannato la legge sulla sicurezza nazionale di Hong Kong, ha paventato sanzioni per la repressione degli uiguri, ha elevato lo status di Taiwan nel suo libro bianco.

I rapporti con Taiwan

Non solo. Suga ha nominato Nobuo Kishi ministro della Difesa. Kishi è il fratello più giovane del premier uscente Abe, nonostante sia stato adottato quando dallo zio materno quando era ancora piccolo e porti il suo cognome. Oltre al rapporto di parentela con l’ex primo ministro, Kishi è conosciuto per essere un ultra conservatore. E’ uno dei più ferventi sostenitori della necessità della riforma della costituzione pacifista post seconda guerra mondiale e in passato si è espresso a favore sulla possibilità da parte di Tokyo di sviluppare armi nucleari. Kishi è noto anche per i suoi stretti rapporti con Taiwan. Di recente ha incontrato Tsai Ing-wen durante una visita in onore della memoria dell’ex presidente di Taipei, Lee Teng-hui, scomparso a luglio. E ora il governo giapponese fa sapere a Biden che considera Taiwan una “linea rossa” delle azioni di Pechino.

 

COREE

Il dialogo tra Corea del nord e Corea del sud ha rallentato. L‘ufficio di collegamento di Kaesong è stato addirittura fatto esplodere. Eppure per Seul il 2020 sembrava un anno positivo, nonostante la pandemia. L’efficacia del suo modello di contact tracing, e anzi di backward tracing, ha fatto parlare di sé in tutto il mondo, così come la capacità del governo di contenere con efficacia e rapidità le prime due ondate di coronavirus. Senza mai chiudere davvero, mantenendo alto il livello di libertà personali e organizzando persino le elezioni a metà aprile, la Corea del sud aveva dimostrato che anche una democrazia poteva vincere la sfida sanitaria.

Eppure, anche qui nelle ultime settimane una terza ondata sta colpendo più forte delle precedenti rimettendo in discussione un successo politico e globale che ha trovato come straordinaria appendice di soft power la vittoria di Parasite agli Oscar e il successo sempre più planetario di K-pop e K-drama.

Moon più forte

Tutti elementi che hanno favorito il partito di maggioranza, che alle elezioni di aprile ha conquistato la maggioranza assoluta dell’assemblea nazionale, il parlamento unicamerale del paese con  un’affluenza del 66,2%, la più alta dal 71,9% del 1992. Il presidente Moon Jae-in è uscito molto rafforzato. Che cosa ci si può aspettare dalla fine del suo mandato (che terminerà nel 2022)? Tutto sarà  condizionato anche dall’andamento dalla pandemia e da quello economico. Quello che è certo è che Moon non potrà completare la riforma della costituzione, per la quale c’è bisogno di due terzi dei voti.

Il contenzioso con gli Usa

Per tutto l’anno si è trascinato l’estenuante negoziato con gli Stati Uniti per le spese di difesa. Dopo il prolungamento di un solo anno dell’accordo scaduto alla fine del 2018, che ha visto un innalzamento dell’8% del contributo di Seul a Washington, non si è mai giunti alla nuova stretta di mano. A incrinare il rapporto tra i due storici alleati c’è stato anche il caso dell’ambasciatore Harry Harris, di madre giapponese, i cui baffi ricordavano a diversi cittadini quelli dei dominatori giapponesi. Tempi mai dimenticati e ancora adesso al centro di uno scontro diplomatico (e di una guerra commerciale) con il Giappone di Abe Shinzo.

Due addii

Nell’anno di Seul si sono registrate anche due morti di rilievo. La prima è quella di Park Won-soon, l’amatissimo sindaco di Seul protagonista di una tragica vicenda, la seconda è quella di Lee Kun-hee, presidente di Samsung e simbolo di quelle chaebol finite nel mirino del governo Moon.

Kim e sorella

E dall’altra parte della zona demilitarizzata (quest’anno priva di eventi mondani come la visita di Trump del 2019)? Si sono trascinate per settimane le indiscrezioni sullo stato di salute di Kim Jong-un, dato più volte per morto e sempre tornato vivo e vegeto. Tutto è nato dalle fonti anonime di intelligence riportate dalla Cnn, che davano la guida suprema di Pyongyang in condizioni critiche dopo un intervento di chirurgia cardiovascolare. Intervento che effettivamente potrebbe esserci stato, lo scorso 12 aprile, nel centro medico Hyangsan vicino al monte Myohyang, a nord della capitale. Emerge la figura di Kim Yo-jong, la sorella del leader, che secondo molti potrebbe essere l’erede. Spiega tutto qui Giulia Pompili.

 

ASEAN

Per il Sud-est asiatico avrebbe potuto essere un anno devastante. E invece da questo 2020 la regione sembra uscire rafforzata, almeno in parte, a livello (geo)politico e più pronta a ripartire a livello economico. In primis il Vietnam, che ha trasformato un problema (la pandemia) in opportunità (facendo valere al meglio la sua presidenza di turno ASEAN).

Vietnam

In Occidente e in Italia si è parlato soprattutto di modello cinese e modello coreano di gestione del coronavirus. Molto meno (se non per nulla) di modello vietnamita, che invece ha funzionato eccome. Secondo le ultime stime della Banca Mondiale, infatti, il Vietnam dovrebbe crescere del 2,8 per cento nel 2020, nonostante la pandemia. Meglio di chiunque altro in tutta l’Asia Pacifico, con Cina (+2 per cento) e Myanmar (+0,5 per cento) unici altri due paesi che dovrebbero avere il segno più a fine anno.

Non è certo un mistero che Hanoi sia la capitale più assertiva nelle dispute marittime con Pechino. Rinfrancato da una gestione pandemica ottimale (ne abbiamo parlato qui), il Vietnam ha assunto una proiezione ancora più decisa all’interno dell’Asean, (dove non tutti, Indonesia e Filippine in primis, hanno avuto lo stesso successo) riuscendo a far firmare una dichiarazione congiunta al summit degli scorsi mesi in cui si fa riferimento alla convenzione Onu del 1982. Risultato non scontato, in una galassia di paesi che sul tema resta frammentato anche per non pregiudicare i fondamentali rapporti commerciali con Pechino. In precedenza, aveva invitato le sue imbarcazioni a non rispettare il divieto di pesca imposto dalla Cina nell’area delle isole Paracelso.

Hanoi sta dimostrando di sapersi muovere in una situazione geopoliticamente complessa, tra l’assertività cinese e i tentativi di arruolamento americani. L’ingresso sempre più evidente dei due vicini indocinesi, Cambogia e Laos, nella galassia del Dragone non hanno influito sulla proiezione regionale di Hanoi, che dal canto suo ha approfondito i rapporti con le potenze medie dell’Indo Pacifico, in primis il Giappone. La cooperazione con Tokyo è forte in materia commerciale ma anche difensiva, come dimostrano i 348 milioni di dollari di prestito ricevuti per la costruzione di unità navali.

Non solo. L’accordo di libero scambio sottoscritto con l’Unione europea (ed entrato in vigore lo scorso agosto) ha dimostrato che il Vietnam è stato individuato dall’occidente come nuovo hub industriale dell’Asia orientale. Non a caso, negli ultimi anni, gli effetti della guerra commerciale e soprattutto l’innalzamento del costo del lavoro in Cina hanno portato molte aziende a ricollocarsi proprio in Vietnam.

Allo stesso tempo, Hanoi rifugge l’allineamento geopolitico con Washington. Certo, l’ombrello difensivo americano può far comodo ma il Vietnam, così come gli altri paesi dell’area compreso il Giappone, vogliono il confronto, e non lo scontro, con la Cina (del tema ne abbiamo scritto settimana scorsa). Il canale diplomatico con Pechino rimane sempre aperto, mentre il Partito comunista vietnamita si prepara al congresso di fine gennaio che stabilità il nuovo leader.

Gli altri paesi Asean

Come detto, Cambogia e Laos sono sempre più contigui alla Cina. Il primo ministro cambogiano Hun Sen si è recato in visita a Pechino durante le prime fasi della pandemia. Un segnale forte. Si continua a parlare del fatto che i porti cambogiani possano ospitare unità navali militari cinesi. Per ora senza conferme.

A Singapore si è votato a luglio. Il People’s Action Party, al potere dal 1959, sotto le attese. Calo nel voto popolare e nella percentuale di seggi. Vince d’un soffio l’erede designato di Lee (qui un’analisi). La città stato emerge bene dalla pandemia e si è aggiudicata la nuova edizione del World Economic Forum del maggio 2021, strappandola a Davos. Altro segnale simbolico che l’Asia è ripartita prima dell’Europa.

Si è votato anche in Myanmar, dove si è affermata nettamente la Lega Nazionale per la Democrazia (LND) di Aung San Suu Kyi, nonostante la visione manichea occidentale abbia trasformato la favola birmana in distopia (ne ho scritto qui). La nuova chiusura da parte dell’Occidente sembra nel frattempo riavvicinato la Birmania alla Cina, ma anche India e Giappone sembrano cercare di allargare la propria sfera d’influenza nel Paese, sia dal punto di vista commerciale sia dal punto di vista difensivo. Tokyo ha appena annunciato un nuovo piano di investimenti di oltre 400 milioni di dollari e Nuova Delhi ha di recente consegnato un sottomarino all’esercito birmano.

In Thailandia il governo e la monarchia hanno dovuto fronteggiare le proteste che hanno acquisito intensità dalla scorsa estate, con una serie di manifestazioni promosse da associazioni di studenti come Free People (prima Free Youth) o gli studenti della Thammasat University, che hanno presentato alcune rivendicazioni politiche: dimissioni del governo attuale, riscrittura della costituzione e scioglimento del parlamento, riforma della monarchia. Quest’ultimo punto, molto sensibile, non era mai stato sollevato in precedenza.  Esiste una legge che tutela l’istituto della monarchia con sanzioni penali fino a 15 anni per vilipendio, anche se non viene più applicata da un paio di anni. Ora si è infranto un tabù.

Proteste ci sono state anche in Indonesia, contro la riforma del lavoro del presidente Widodo che prevede una serie di deregolamentazioni che, secondo i manifestanti, toglieranno garanzie ai lavoratori e creeranno problemi all’ambiente. Nelle Filippine, invece, Rodrigo Duterte ha prima annunciato la fine dell’accordo difensivo con gli Stati Uniti, prima di tornare sui suoi passi e optare per un posticipo di sei mesi della decisione, in attesa dell’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca. Il presidente filippino prepara anche la strada alla figlia per le elezioni del 2022.

Fiore all’occhiello dell’anno ASEAN resta la firma del RCEP, obiettivo raggiunto al termine della presidenza vietnamita. Nel 2021 la presidenza di turno toccherà a Brunei.

 

ASIA MERIDIONALE-PACIFICO

La disputa territoriale tra Cina e India di cui abbiamo già parlato ha anche altri due attori: Nepal e Bhutan. Il primo si è nettamente avvicinato a Pechino da quando al governo c’è il Partito comunista locale, anche se sono appena state chiamate elezioni anticipate che hanno aperto una crisi politica seguita da vicino da Pechino e Nuova Delhi. Nelle scorse settimane Cina e Nepal hanno anche raggiunto un accordo sull’altezza dell’Everest. Il Bhutan è invece più vicino a Nuova Delhi ed è coinvolto in un contenzioso territoriale con Pechino.

Il Pakistan potenzierà la sicurezza del porto di Gwadar, progetto simbolo della Belt and Road cinese, con una recinzione che consentirà di proteggere l’investimento strategico da proteste e opposizioni.

Gli Usa vanno in pressing sulle nazioni insulari del Pacifico per i progetti cinesi riguardanti i cavi sottomarini.

Taneti Maamau, artefice del passaggio diplomatico di Kiribati (strategico arcipelago del Pacifico meridionale) da Taipei a Pechino nel 2019, è stato confermato presidente. Kiribati ha ricevuto circa 4,2 milioni di dollari dal governo cinese per vari progetti negli scorsi mesi ed è sede di una stazione spaziale cinese che, secondo alcuni osservatori, potrebbe essere utilizzata a fini strategici e operativi. Senza contare che l’isola di Natale, che fa parte dell’arcipelago, dista poco più di duemila chilometri da Honolulu, sede del Pacific Command americano.

Restando sul Pacifico, aziende cinesi hanno messo nel mirino Digicel, il principale operatore telefonico degli stati insulari che fanno tradizionalmente parte della sfera di influenza australiana. Pechino continua la sua diplomazia del vaccino nell’area.

 

ASIA CENTRALE

Si è votato in due paesi dell’area in rapida successione. Con esiti e conseguenze molto diverse. A inizio ottobre è toccato al Kirghizistan. I partiti considerati in qualche modo vicini al presidente Sooronbay Jeenbekov hanno ottenuto un successo netto. Ma da lì sono partite delle proteste che hanno portato a un rovesciamento totale della situazione, con le dimissioni di presidente e governo, la liberazione e la nuova cattura dell’ex presidente Atambayev (che qualche mese prima era stato arrestato dopo uno scontro a fuoco fuori dalla sua abitazione e un primo tentativo andato a vuoto), l’avvento di Japarov e le nuove elezioni a gennaio.

In Tagikistan invece si conferma, come ampiamente previsto, il regno di Emomalī Rahmon, che ha vinto le presidenziali con oltre il 90% (qui un’analisi).

L’Uzbekistan si avvicina a Pechino, con l’apertura (tra le altre cose) di un centro per la medicina tradizionale cinese, uno degli elementi retorici che stanno maggiormente a cuore al PCC in tema di coronavirus.

[Pubblicato su Affaritaliani]