Pakistan – Il profeta della guerra santa

In Uncategorized by Simone

La relazione tra Stato, servizi  e terrorismo in Pakistan è, per usare un eufemismo, confusa. Lo ricorda la Lashkar-i-Toiba, un problema internazionale come Al Qaida che soltanto Islamabad non riconosce. China Files vi regala un brano di Apocalisse Pakistan (per gentile concessione dell’editore Memori).La questione del Kashmir non potrà essere risolta con i colloqui, non con la mediazione americana, non dividendo la regione, ma soltanto in un modo: jihad, jihad, jihad!”. A parlare così, durante un discorso tenuto a Lahore, è un signore alto e piuttosto in carne che sfoggia una fluente chioma inanellata e un altrettanto fluente barba tinta con l’hennè. A vederlo, non diresti mai che si tratta del ricercato numero uno dell’India, e di uno degli uomini più pericolosi del pianeta: Mohammed Hafiz Saeed.

La famiglia di Saeed, punjabi emigrati da Shimla a Lahore, è stata praticamente decimata durante la Partition: trentasei morti, tra parenti più o meno stretti. L’essere cresciuto in un ambiente così pesantemente segnato dalla tragedia e lo stretto conservatorismo della famiglia possono forse spiegare alcune cose: la visione strettamente integralista dell’Islam, la fascinazione per la jihad, e l’odio fanatico per l’India, l’Occidente e tutto ciò che rappresenta.

Può spiegare anche, forse, l’estrema difficoltà del gentiluomo in questione ad avere a che fare con esseri di sesso femminile, visto che Saeed è capace di parlare per più di un’ora sedendo a meno di un metro da una donna continuando a fissare ostinatamente il pavimento e a rigirare ossessivamente i pollici, nonostante la donna in questione abbia la testa “decentemente” coperta. O il rifiuto di parlare in inglese, lingua che il nostro capisce e parla perfettamente, magari per non parlare la lingua degli esecrati infedeli o per non essere costretto a rivolgersi direttamente a una signora.

Un filantropo di professione

Incontrarlo non è facile. E dopo innumerevoli telefonate e appuntamenti rimandati si approda a Markaz Aladsia, una madrasa nella vecchia Lahore presidiata da un paio di poliziotti e da una decina di uomini con la barba in kurta-pijama che sfoggiano vezzosi AK-47 nuovi di zecca, da cui a un certo punto escono a tutta velocità un paio di Suv dai vetri oscurati e dall’aria governativo-militare. Per essere prelevati e portati infine a casa di Saeed. Che vive invece in una villetta a Johar Town, uno dei quartieri della middle-class di Lahore, circondata da ogni lato da posti di blocco della polizia che servono a tenere fuori gli intrusi e come protezione, piuttosto che a tenere dentro lui.

Nonostante il fatto che sia stato ufficialmente accusato dall’India di essere lo stratega e il mandante della strage di Mumbai del 26 novembre 2008 e sia il padre fondatore del gruppo terroristico della Lashkar-i-Toiba (LiT) e l’attuale capo della Jamaat-u-Dawa (JuD), considerata dai più il braccio politico della suddetta LiT. Saeed, che dichiara ufficialmente di essere soltanto il capo di una organizzazione umanitaria, è stato arrestato per breve tempo all’indomani della strage di Mumbai e in seguito rilasciato per non aver commesso alcun reato in territorio pakistano e perché, secondo la Suprema Corte di Lahore “Al Qaida in Pakistan non è un’organizzazione terroristica”.

Non si capisce come mai il presidente di una organizzazione umanitaria abbia bisogno di circondarsi di mitra, ma tant’è. In una stanzetta piuttosto squallida occupata quasi del tutto da un letto con la testiera in finto legno, un divanetto, un tavolino e una poltroncina di plastica bianca, il filantropo di professione riceve i suoi visitatori. E nega con forza ogni accusa.

Per usare le parole dello stesso Saeed: “La Lashkar-i-Toiba è un movimento di liberazione del Kashmir occupato, uno dei tanti movimenti di liberazione che operano in Pakistan. Per capire, bisogna affrontare il nodo centrale della questione: la relazione tra il Pakistan e il Kashmir. Che è una relazione molto profonda, un legame viscerale. L’India è una forza di occupazione, e continuando a mantenere il suo esercito nella regione viola una risoluzione delle Nazioni Unite”, mentre la Jamaat-u-Dawa è: “un’organizzazione non governativa con finalità umanitarie che opera completamente in sintonia con le leggi dello Stato e con gli ideali islamici di fratellanza. […]

Terroristi e professori

La Jamaat-u-Dawa è nata nel 2002 dalle ceneri del Markaz Dawat-ul-Irshad (Centro per la propaganda e l’insegnamento della fede), fondato nel 1985 da Mohammed Hafiz Saeed e da Abdullah Azzam, un professore palestinese che insegnava Studi Islamici ad Amman e a Ryad, assurto anni dopo all’onore delle cronache per essere stato l’ideologo e l’insegnante di Osama bin Laden. Azzam era sbarcato in Pakistan nel 1979 per “ridare smalto alla perduta arte della jihad” e aveva fondato in seguito il Maktab-al Khidmat (l’ufficio del servizio) allo scopo di aiutare i jihadi arabi in arrivo in Pakistan e i gruppi mujaheddin. Ucciso nel 1989 da una bomba probabilmente piazzata dal Mossad israeliano, aveva lasciato in eredità a Saeed quello che si andava pian piano trasformando in un piccolo impero religioso, politico e militare.

Ma i tempi stavano cambiando, i russi si ritiravano dall’Afghanistan, i mujaheddin e i jihadi rischiavano di rimanere disoccupati e Saeed, messo dal generale Zia ul-Haq prima a far parte del Consiglio sull’ideologia islamica e poi a insegnare Studi islamici all’università di Lahore, aveva deciso di rivolgere altrove la sua attenzione e cavalcare la questione del momento: il Kashmir, fondando un’organizzazione nuova di zecca che potesse combattere la nuova guerra santa.

La cosiddetta “questione del Kashmir”, madre di tutte le stragi compiute negli ultimi anni in India, risale al 1947, all’epoca della divisione tra India e Pakistan. Ai tempi lo Stato, che era un regno indipendente, si era trovato in una situazione paradossale: il maharaja, che deteneva il potere su tutto il territorio kashmiri, governava uno Stato a maggioranza musulmana ma apparteneva alla minoranza induista e decise perciò che lo Stato doveva essere annesso all’Unione indiana. Immediatamente, un contingente di truppe pakistane attraversò il confine con l’intento di annettere con la forza il territorio al neonato Stato islamico.

L’India fu pronta a reagire e a inviare a sua volta l’esercito, ma perse una piccola parte dei territori a nord e nordovest. Scoppiava così il primo conflitto indo-pakistano per la sovranità sul territorio del Kashmir, e si apriva uno dei conflitti più sanguinosi e duraturi della storia. Il cessate il fuoco imposto dalle Nazioni Unite nel 1948 riusciva a far cessare il primo conflitto imponendo la cosiddetta “Linea di controllo” (Loc), una linea di confine provvisoria. La risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, adottata il 21 aprile dello stesso anno, ordinava al Pakistan di ritirare le truppe dalle zone che aveva occupato e all’India di indire un referendum di autodeterminazione.

Tuttavia il Pakistan non si ritirava dalle posizioni conquistate e invece si annetteva anche i distretti del Gilgit e del Baltisan creando così il cosiddetto “Azad Kashmir” (Kashmir libero) musulmano. Di conseguenza, l’India si rifiutava di indire il plebiscito. Da allora, sia l’India che il Pakistan rivendicano la sovranità sul territorio conteso, mentre alcuni gruppi separatisti combattono per la creazione di uno Stato indipendente.

Anche la Cina ha rivendicato, nel 1959, il possesso di una porzione del territorio della regione del Ladakh. Dal 1948 al 1965 sono state emanate cinque risoluzioni del Consiglio di sicurezza e due della Commissione delle  Nazioni Unite per cercare di risolvere la controversia. Le risoluzioni intimavano l’immediato cessate il fuoco ai contendenti, imponevano l’immediata smilitarizzazione della regione e demandavano la soluzione del conflitto a un referendum popolare di autodeterminazione. India e Pakistan hanno combattuto, per la sovranità sul Kashmir, quattro guerre, se si conta anche quella non ufficialmente
dichiarata combattuta nel 1999 che viene generalmente chiamata “il conflitto di Kargil”.

Dall’inizio degli anni novanta, il Pakistan ha cominciato ad armare gruppi separatisti di Srinagar e dintorni e, soprattutto, a mandare combattenti oltre confine. Principalmente a opera del futuro presidente Musharraf, che era allora direttore delle operazioni militari, durante il governo della defunta Benazir Bhutto. Il geniale Pervez, ai tempi ancora pupillo del capo dell’Isi Hamid Gul e come il suo mentore entusiasta sostenitore di Osama bin Laden e della jihad contro i russi, aveva sottoposto a Benazir un brillante piano per rompere le scatole all’India in Kashmir senza dover fare un’altra guerra. E Benazir gli aveva dato via libera.

Il piano consisteva nell’addestrare militarmente una serie di militanti islamici e instradarli verso il Kashmir indiano. Nasce così l’Harkat ul-Ansar, diventata in seguito Harkat ul-Mujahedin, nascono così altre organizzazioni jihadi. E nasce così anche la collaborazione tra Musharraf e il Markaz Dawat-ul-Irshad, che a quel punto aveva già la sua organizzazione militante, la LiT. Mohammed Hafiz Saeed aveva fondato la LiT alla fine degli anni ottanta in Afghanistan, nella provincia di Kunar “con denaro saudita e con la protezione dei servizi segreti pakistani”.

[…]Gli obiettivi dell’organizzazione sono esposti in un grazioso libretto, pubblicato nel 1999, dal titolo: Why are we waging jihad (Perché combattiamo la jihad) e vanno ben oltre la liberazione del Kashmir indiano. […] In sostanza, non si tratta affatto di un gruppo, uno dei tanti, che hanno come scopo la liberazione del Kashmir, ma di un’organizzazione che si è data un obiettivo ben più ampio: la lotta per l’eliminazione delle “forze del male” occidentali e il “piantare la bandiera dell’Islam su Washington, Delhi e Tel Aviv” sconfiggendo quelli che considera i suoi principali nemici: l’India, Israele e gli Stati Uniti.

Curiosamente, l’agenda coincide alla perfezione con quella dell’Isi e della creazione del famoso “califfato islamico” che apra la strada al Pakistan verso il Medio Oriente. Allo scopo, la LiT ha costituito una capillare rete di uffici, più di duemila, in tutto il Pakistan. E campi di addestramento un po’ ovunque, in particolare lungo il confine con l’India e con l’Afghanistan. Non è un caso che praticamente tutti i protagonisti di attentati in India o in Occidente degli ultimi dieci anni abbiano dichiarato di essere stati addestrati in Pakistan da uomini della LiT. […]

Il 13 dicembre 2001 la Lashkar-i-Toiba e un altro gruppo jihadi pakistano, l’Hizb-ul-Mujaheddin, attaccano il Parlamento di Delhi e Musharraf, già presidente, viene costretto dalle solite pressioni internazionali a mettere fuorilegge i gruppi in questione. Così nel 2002, con un provvedimento in perfetto stile pakistano, Islamabad mette al bando tutte le organizzazioni di cui sopra. Solo in Kashmir, però. Nel resto del Paese i militanti continuano a operare indisturbati anche se, forse soltanto per decenza, cambiano nome a qualche gruppo e il Markaz Dawat-ul-Irshad, nell’occhio del ciclone per le sue relazioni con bin Laden, diventa Jamaat-u-Dawa.

Le Nazioni Unite inseriscono nel 2005 la Lashkar-i-Toiba nella lista delle organizzazioni terroristiche internazionali, e nel 2007 il Dipartimento di Stato, nel Rapporto annuale sul terrorismo, dichiara nero su bianco che la Jamaat-u-Dawa è soltanto un’organizzazione di facciata della Lashkar-i-Toiba. Sia il governo pakistano che Hafiz Saeed continuano a negare. All’indomani dell’attacco di Mumbai del 2008, dopo due giorni di tensione ai massimi livelli tra India e Pakistan in cui si succedono a Islamabad frenetici vertici ad altissimo livello tra il presidente Zardari, il premier Gilani, i capi dell’esercito e dei servizi segreti, e in cui volano in Pakistan i supergenerali americani Mike Mullen e David Petraeus, oltre al senatore John Mc Cain, l’esercito pakistano attacca a sorpresa il campo di addestramento di Shawai, nel cosiddetto Azad Kashmir.

Il campo, di addestramento e raccolta, è secondo fonti di intelligence il maggiore tra quelli adoperati dalla LiT. A Shawai viene arrestato anche Zaki-ur-Rehman Lakhvi, capo militare dell’organizzazione, messo agli arresti domiciliari come Hafiz Mohammad Saeed. Per la prima volta, in seguito a pressioni americane e all’inclusione dell’organizzazione nella lista dei sospetti terroristi da parte di Washington, il governo di Islamabad ordina la chiusura delle sedi della JuD a Lahore e congela i conti correnti dell’organizzazione.

Un gesto senza precedenti che, però, non soddisfa del tutto né gli Stati Uniti né, soprattutto, l’India. Anche perché dura lo spazio di un mattino. Il tempo cioè di far decantare le tensioni a livello internazionale. Dopo neanche un mese Saeed e Lakhvi tornano più o meno liberi. E la Jamaat-u-Dawa continua a operare indisturbata nei suoi uffici sparsi per il Paese ma soprattutto a Muridke, a trenta chilometri da Lahore.

A Muridke si trova difatti la sede principale della “organizzazione non governativa senza scopo di lucro”. Il complesso di Muridke è stato in gran parte finanziato con donazioni provenienti dall’Arabia Saudita e comprende, oltre alla madrasa, un ospedale, una fattoria modello, un mercato, un complesso residenziale per professori e studenti e un complesso per l’itticoltura.

La Jamaat-u-Dawa gestisce un servizio di ambulanze privato, cliniche mobili, banche del sangue, più di cento scuole secondarie e una quindicina di madrasa più piccole. Dopo l’attacco di Mumbai il governo del Punjab ha messo la madrasa sotto la sua giurisdizione, e Muridke (quindi la JuD e la LiT) viene finanziata con denaro pubblico. La JuD è stata particolarmente attiva durante il terremoto del 2005 e durante l’alluvione del 2010, ed è sempre in prima linea nel soccorrere gli sfollati: campi profughi e rifugiati sono un bacino di reclutamento ideale. Il gruppo si finanzia con raccolte di fondi in vari Paesi, riceve denaro da uomini d’affari pakistani e kashmiri, da varie organizzazioni islamiche, dall’Arabia Saudita e dall’Isi. […]

La relazione tra Stato e terrorismo, tra terrorismo e servizi segreti più o meno deviati e la definizione stessa di terrorismo in Pakistan sono, per usare un eufemismo, piuttosto confusa. Qualcuno ha detto ad esempio che né Musharraf né nessun altro ha mai fatto o farà un tentativo serio per fermare la Lashkar-i-Toiba, la Jamaat-u-Dawa e i loro affiliati. Perché fanno comodo all’esercito e all’Isi, che nell’avere un nemico alle porte trovano la loro ragione d’essere e da questo traggono il loro potere, ma soprattutto perché potrebbero, se volessero, provocare una guerra civile in un attimo: si stima che nei campi di addestramento di Saeed e compagni siano passati, negli anni, più di ventimila militanti. Che a questo punto tengono sotto scacco i loro creatori.

La buona vecchia storia della creatura messa insieme da Frankenstein, che si ribella fino a uccidere il suo creatore. In questo caso, e la storia è nota, si tratta sempre del solito Musharraf, di Benazir Bhutto e del suo alleato Nasirullah Babar. Che, oltre a inventare i gruppi jihadi da mandare in Kashmir, creano, sostengono e finanziano i Taliban come prima, con l’aiuto degli Stati Uniti e dell’Occidente tutto, avevano entusiasticamente dato una mano a Osama bin Laden e ai vari gruppi di mujaheddin.

Naturale quindi che allo scoppio della guerra in Afghanistan i Taliban si rifugiassero in Pakistan. La strategia di Islamabad contro il terrorismo ha seguito, ai tempi di Musharraf e George W. Bush, uno schema fisso ma di provata efficacia: Islamabad domandava fondi, equipaggiamenti e mezzi militari sempre più sofisticati, Washington elargiva a piene mani. Salvo poi innervosirsi ogni volta che risultava evidente l’efficacia praticamente nulla della “lotta” del Pakistan contro Taliban e compagni.

In quel caso, o alla vigilia di una nuova elargizione e di un summit internazionale, l’esercito lanciava una nuova, cruenta offensiva destinata sempre a sollevare un gran polverone e a cadere nel dimenticatoio entro poco tempo. Fino a quando Musharraf viene messo alle corde dall’affare Lal Masjid e dimentica i fratelli del Kashmir, a proposito del quale arriva addirittura a proporre una serie di trattative che tutto sommato non dispiacerebbero neanche all’India.

A quel punto, le cose cambiano. Il giorno stesso in cui Musharraf revoca l’Emergenza, in South Waziristan si riuniscono quaranta capi di altrettante organizzazioni militanti che sostengono i Taliban afghani per formare una nuova organizzazione-ombrello chiamata Tehrik-i-Taliban-i-Pakistan.

A capo dell’organizzazione viene eletto Baitullah Mehsud, teorico della “jihad difensiva”. Scopo principale della neonata organizzazione è difatti combattere “a scopo difensivo” contro l’esercito pakistano che attacca, non rispettando gli accordi presi da Musharraf con mullah e Taliban locali, Swat e South Waziristan e solo in secondo ordine combattere le forze della coalizione in Afghanistan. Comincia una delle stagioni più sanguinose della storia del Paese.

Mullah e militanti, Taliban e jihadi, dalle remote provincie di confine arrivano a colpire e a installarsi nel cuore pulsante dell’economia e della politica pakistana: il Punjab. Segnando un deciso cambio di strategia e di equilibri all’interno della variegata galassia delle organizzazioni terroristiche interne al Pakistan. I Taliban originari, quelli afghani comandati dal mullah Omar, combattono al confine contro le truppe della coalizione, finanziati come al solito dall’Isi e aiutati dall’esercito, e non si interessano per nulla degli affari interni di Islamabad. Il target dei Taliban di Mehsud è invece Islamabad, colpevole di aver venduto il Paese all’Occidente e tradito la causa dell’Islam. […]

Agli Stati Uniti interessa risolvere il conflitto afghano, mentre Islamabad non ha interesse alcuno a colpire i militanti di Kabul e dintorni che potrebbero tornare utilissimi al momento del ritiro delle truppe della coalizione. Il Pakistan vede come il fumo negli occhi la crescente influenza indiana a Kabul, e confida, come ha sempre fatto, nei Taliban e negli integralisti per ripristinare la propria sfera di influenza. Così, non dovrebbe sorprendere il fatto che i Taliban afghani, la shura di Quetta e il mullah Omar, non sono mai stati colpiti dal governo pakistano, anzi. I bombardamenti in Baluchistan sono in realtà stati effettuati per liberarsi dei vari gruppi separatisti. Così come il Waziristan e Swat sono stati attaccati per liberarsi di Mehsud e dei suoi che sono, invece, il vero problema di Islamabad.

La Lashkar-i-Toiba è un problema internazionale esattamente come Al Qaida, ma è un problema che Islamabad continua a negare.

* Francesca Marino lavora come giornalista free lance dall’Asia meridionale, scrivendo di India, Pakistan e dintorni per Il Messaggero, l’Espresso e Limes.

* *Beniamino Natale frequenta l’ Asia dal 1978, quando fece il primo viaggio in India e decise di passarci parte della propria vita. Il suo primo viaggio in Cina risale al 1985 e fu un secondo colpo di fulmine…Dal 1992 al 2002 è stato corrispondente dell’ Ansa da New Delhi, coprendo tutto il subcontinente e nel 2003 si è trasferito a Pechino, dove vive tuttora. Da China Files è considerato una guida imprescindibile per chi lavora nel giornalismo in Asia.