Non solo Cina, sotto lo stesso cielo c’è anche tanta altra Asia

In Cultura, Relazioni Internazionali by Lorenzo Lamperti

Prima di Tianan’men, l’Asia era solo Giappone. Oggi invece, sembra che sia solo Cina. Quantomeno nella percezione occidentale, focalizzata da ormai diverso tempo sulla cosiddetta “ascesa” (o “risveglio”) cinese e sul presunto disegno egemonico di Pechino e di Xi Jinping. In realtà c’è di più, c’è molto di più, da raccontare in un continente-mondo che sta diventando sempre più cruciale non solo dal punto di vista economico e commerciale, ma anche e soprattutto geopolitico e strategico. Conoscere le dinamiche asiatiche diventa un requisito sempre più fondamentale per chi si approccia al “mondo cinese” e in generale alle grandi tematiche globali. Perennemente ferma ad alcune tradizione del futuro, eppure irreversibilmente proiettata alla costruzione del futuro, l’Asia ha tante storie da raccontare. Ascoltarle, magari attraverso una buona guida, è fondamentale per comprendere meglio quello che accade oggi non solo nei singoli paesi depositari di queste storie, ma anche a livello regionale nel complicato incastro dei rapporti bilaterali e multilaterali di una parte di mondo che non si finisce mai di conoscere e che sorprende, sempre.

In aiuto per realizzare tutti questi obiettivi arriva Sotto lo stesso cielo, libro di Giulia Pompili da poco pubblicato da Mondadori Editore. Giulia Pompili, per chi non la conoscesse, è una giornalista che si occupa da svariati anni di Asia per Il Foglio. Cura Katane, una newsletter che da tempo è diventata una bussola per chi si interessa di Asia e Pacifico, e il suo lavoro è sempre andato nella direzione di cui si parlava all’inizio: conoscere e raccontare l’Asia, in tutte le sue sfaccettature, in tutte le sue “destinazioni” politiche, economiche, sociali, culturali e talvolta storiche.

Ci sono un po’ tutti questi ingredienti in “Sotto lo stesso cielo”, frutto del lungo tempo dedicato da Pompili all’Asia e ai suoi diversi centri nevralgici e dei suoi costanti viaggi nell’area. Tra reportage e racconto, il libro snocciola una lunga serie di fatti, dati, nomi e prospettive sulla complessa dimensione dell’Asia orientale. Sono sostanzialmente tre i cerchi concentrici attorno ai quali orbita il libro, gli stessi che si stagliano in copertina sull’orizzonte dietro la grande muraglia: Taiwan, Giappone e Corea del Sud. Taipei, Tokyo e Seul, con Pechino convitato di pietra: nessuna di esse esisterebbe senza le altre e le loro profonde interconnessioni.

“Sotto lo stesso cielo” si sviluppa in sei capitoli densi. Dalle “isole della discordia”, in cui Pompili racconta in prima persona le dispute territoriali tra Giappone e Cina e soprattutto racconta i luoghi coinvolti in esse, alla traiettoria giapponese dall’ingombrante passato al rilancio di Shinzo Abe. Il terzo capitolo spiega la Corea del Sud dalla costruzione della sua società civile (argomento dell’estratto che proponiamo qui sotto) alla diffusione del K-Pop e dei K-Drama. Si passa poi alla Corea del Nord e alle sue vicende da spy story, che Pompili ha spesso raccontato su Il Foglio. Grande spazio anche a Taiwan, che dalla legge marziale ha saputo trasformarsi in una democrazia attenta ai diritti civili. Per concludere poi con le “questioni di immagine”, il soft power e la narrazione che i centri nevralgici dell’Asia orientale propongono di loro stessi al mondo.

Coerentemente con tutto il lavoro svolto in questi anni, Pompili conduce il lettore in luoghi spesso sconosciuti e lo fa in modo preciso e allo stesso tempo coinvolgente. D’altronde, Pompili è la giornalista che ha saputo spiegare che “l’Asia orientale è un posto complicato, dove il passato torna costantemente nelle cronache contemporanee, dove anche mangiare un gamberetto può essere un atto politico. Ma è l’unico luogo da cui partire per capire lo scontro globale tra America e Cina, e magari trovare una terza via tra due modelli distantissimi”.

Pubblichiamo qui un estratto da “Sotto lo stesso cielo” di Giulia Pompili (per gentile concessione di Mondadori Editore)

Il massacro di Gwangju e la trasformazione della società civile

Piazza Gwanghwamun è il luogo in cui succedono le cose perché qui è dove si protesta. Un’ordinanza della municipalità teoricamente vieta le manifestazioni nell’area pedonale, ma viene per lo più raggirata con assembramenti sui marciapiedi al di là delle carreggiate per le automobili. A volte, invece, il divieto è ignorato per motivi politici. In ogni caso, non è difficile passare di qui e trovare mobilitazioni sindacali, comizi politici oppure sit-in di giovani coreani che manifestano contro la leva obbligatoria.
Il servizio militare in Corea del Sud è obbligatorio sin dal dopoguerra per tutti i maschi tra i diciotto e i ventotto anni, e dura almeno un anno e mezzo, qualunque cosa facciate. Anche perché non farlo, oltre a essere un problema in caso di concorsi pubblici, è uno stigma sociale difficile da sopportare. E le eccezioni sono pochissime: all’inizio riguardavano quasi esclusivamente gli atleti, che rispondevano a quell’idea di prestigio nazionale da Guerra fredda. Poi, ultimamente, l’esenzione è stata allargata alle popstar. O meglio, solo ad alcune popstar, in particolare i BTS – forse non li conoscete, ma sono la band più ricca e famosa del mondo, e sì, sono un gruppo K-pop, cioè fanno pop sudcoreano. Questi giovani idols, come si chiamano i giovani artisti che sbancano nel mondo dello spettacolo con
trollati da società-colossi dell’intrattenimento, secondo la regola vigente avrebbero dovuto fermarsi per almeno un anno e mezzo per cominciare il servizio di leva: niente concerti, niente registrazioni, niente incontri con i fan. In pratica il gruppo che macina milioni sarebbe andato in pensione. Dopo vari dinieghi, alla fine il governo è stato costretto ad approvare all’ultimo momento una legge ad hoc, ribattezzata la «BTS law», per permettere a quella macchina da soldi di continuare a marciare. Ma le eccezioni sono ancora pochissime, dicono gli attivisti, ed è anche per questo motivo che quello della leva è un tema molto sensibile per i giovani sudcoreani: la società, che è tra le più competitive al mondo, obbliga tutti i ragazzi a fermarsi nel momento più cruciale per il lancio di una carriera, per andare a prestare il proprio servizio nelle forze armate. A Piazza Gwanghwamun spesso i ragazzi che manifestano contro il servizio di leva sono controllati, in qualità di forze dell’ordine, da altri ragazzi in servizio di leva.
Non c’è luogo più adatto alla protesta che non sia questo, il luogo centrale della politica: durante la dinastia Chosun quest’area era la sede dei «sei ministeri» fondamentali del regno, e anche oggi si affacciano qui, uno di fronte all’altra, il ministero degli Esteri del governo di Seul e l’ambasciata degli Stati Uniti d’America. Ogni volta che capito da queste parti, davanti al cancello con le bandiere a stelle e strisce, c’è un signore con un cartello in mano con scritto «No Thaad No War». Il Thaad è lo scudo antimissile americano la cui istallazione è costata carissima ai sudcoreani in termini di rapporti con la Cina. Ma qui intorno si vedono ogni tanto anche i gruppi religiosi, che protestano contro l’aborto e contro ogni cosa legata alla modernità; ci sono i sostenitori di un politico o dell’altro, gli agricoltori, i dipendenti di Samsung che a seconda della giornata accusano l’azienda oppure la difendono, quelli che vorrebbero meno immigrazione, soprattutto dal Nord, più occupazione, università meno costose.
Insomma, lo avrete capito: la Corea del Sud è il paese con l’opinione pubblica più attiva del mondo. La libertà di manifestazione è un’ossessione maniacale, che coinvolge tutti e deriva forse da un passato non proprio democratico del paese che, come la Cina di Piazza Tienanmen, ha avuto le sue proteste represse nel sangue: il massacro avvenne il 18 maggio 1980 nella città meridionale di Gwangju.
È un momento che ha segnato per sempre la trasformazione democratica della Corea del Sud, studiato molto poco in Occidente. Fu una guerra civile di una penisola divisa, e di un paese diviso, Nord contro Sud, Stato contro civili, esercito contro studenti. Un numero imprecisato di morti, che oscilla tra i 171 certificati dai documenti del governo e i 2000 dichiarati dagli attivisti. Quello che accadde in quei dieci giorni del maggio 1980 ha profondamente cambiato la Corea del Sud, ma nonostante questo, fino a poco tempo fa, se ne parlava poco. Finché al governo di Seul ci sono stati i conservatori come l’ex presidente Lee Myung-bak o Park Geun-hye, si tentava di minimizzare l’accaduto, o comunque considerarlo una necessità imposta dalla situazione. Da qualche anno il massacro di Gwangju è tornato a essere ricordato da tutti, e non soltanto dalla parte meridionale della Corea del Sud – tradizionalmente più di sinistra e progressista – come il simbolo di un passato che non può e non deve tornare.
Come spesso accade, è stata anche la cultura a veicolare il messaggio di quegli eventi alle nuove generazioni. La scrittrice di fama internazionale Han Kang, che è nata a Gwangju ma è cresciuta a Seul, nel 2014 ha raccontato quei terribili giorni di protesta nel romanzo Atti umani. Tre anni più tardi è uscito A Taxi Driver, film diretto da Jang Hoon che ha avuto un successo clamoroso in Corea. Racconta la storia vera del tassista Kim Sa-bok, che accompagnò a Gwangju il giornalista tedesco Jürgen Hinzpeter – l’unico occidentale che riuscì ad arrivare nella città, fu presente durante il massacro e lo raccontò al mondo. A Gwangju, Hinzpeter divenne un eroe, all’interno del memoriale per le vittime c’è un giardino a lui dedicato, con parte delle sue spoglie.
Ma prima dell’uscita della pellicola pochissimo si sapeva dell’anonimo tassista che lo aveva accompagnato. Nel 2018 le istituzioni coreane riuscirono a traslare in quel giardino anche i resti di Kim Sa-bok, per riunire idealmente una coppia che contribuì enormemente al processo di democratizzazione della Corea del Sud.
Proprio come in Cina nove anni dopo, le proteste in Corea del Sud iniziarono nelle università, tra studenti e professori che volevano riforme democratiche e un governo meno autoritario. L’allora presidente Chun Doo-hwan impose la legge marziale per sedare le manifestazioni, che però continuarono, e anzi col passare dei giorni aumentarono e si estesero ad altre città. La guerra con la Corea del Nord era finita con un armistizio poco meno di trent’anni prima, e i funzionari del governo erano ossessionati dalla paura che Kim Il Sung, leader nordcoreano che aveva già ordinato il primo attacco a Seul nel 1950, potesse aver «aiutato» le proteste per creare disordine e tornare ad attaccare. C’era la Guerra fredda e c’era la «paura rossa»: la Corea del Nord era aiutata da Pechino mentre Seul era legata a Washington.
Il 18 maggio a Gwangju arrivò l’esercito con i blindati a sedare definitivamente i manifestanti. Nel 2017 il giornalista americano Tim Shorrock è riuscito a ottenere e ha pubblicato sul sito «38th North» i documenti segreti di Washington durante quei giorni di massacro in Corea del Sud.
La ricostruzione di Shorrock, in sostanza, dimostra quel che da tempo la società civile e gli storici sospettavano: la giunta militare in Corea del Sud approvò l’uso della forza anche con il sostegno dell’amministrazione americana guidata dal presidente Jimmy Carter. E il motivo era chiaro: l’eversione poteva essere stata scatenata da nordcoreani infiltrati tra gli studenti (un’eventualità mai confermata), ma soprattutto il caos poteva essere pericoloso, un momento di debolezza che avrebbe potuto essere usato dalla Corea del Nord per una nuova invasione. È anche alla luce di questo, spiega Shorrock, che va letto il sentimento antiamericano che spesso si muove soprattutto nelle città meridionali della Corea del Sud.