Al di là della gioia per il Nobel assegnato a Liu Xiaobo, una presa di posizione così netta da parte della comunità internazionale nei confronti del gigante cinese porta con sé una serie di messaggi impliciti che è bene analizzare nel dettaglio.
L’apertura economica della Cina la rende più vulnerabile. Il dato più significante, ben espresso dal portavoce del comitato di Oslo, è che la straordinaria cavalcata dell’economia cinese, che in trent’anni da paese del terzo mondo è diventata la seconda potenza al mondo, ha attirato i riflettori dell’opinione pubblica globale sulle vicende che il Partito comunista cinese derubrica come affari interni, ostinandosi a scansare le critiche che dal 2008, con le Olimpiadi, fino ad oggi, si sono fatte sempre più fitte.
Aprirsi al mondo, guadagnare credito internazionale, organizzare ed ospitare eventi mondiali come l’Expo, comporta una serie di responsabilità extra-economiche che la dirigenza di Pechino sta dimostrando di non volersi ancora prendere. Una censura così asfissiante e stringente, la persecuzione matematica che subiscono le voci dissonanti all’interno dei confini cinesi ed il controllo totale dei mezzi d’informazione rappresentano, per un paese candidato a diventare forse il più grande tra i grandi della Terra, un’anomalia che nel 2010 non può essere più tollerata.
Questa può essere una chiave di lettura per interpretare il primo Nobel per la pace mai assegnato ad un cittadino cinese, un segnale forte e chiaro alla nomenklatura di Pechino: è ora di cambiare.
A poco sono valse le pressioni diplomatiche che la Cina, su stessa ammissione del comitato per il Nobel, ha provato a fare nei confronti della commissione norvegese, segno che forse la realpolitik economica, almeno questa volta, non ha avuto la meglio.
Dall’altra parte, mentre il premier Wen Jiabao è in visita in Europa a promettere investimenti per scongiurare una nuova crisi del debito, tra il parlamento cinese ed il congresso americano si sta giocando una partita a scacchi per l’apprezzamento del Renminbi, la valuta cinese artificialmente deprezzata dal governo cinese per assicurarsi prezzi competitivi nelle esportazioni e non far inceppare la crescita economica.
Il congresso, pochi giorni fa, ha votato con larghissima maggioranza una proposta di legge per applicare dei dazi alle esportazioni cinesi, misura che secondo alcuni analisti dovrebbe aiutare la malconcia economia a stelle strisce. Come risposta, la Cina ha deprezzato ulteriormente la sua valuta, sfidando apertamente gli Stati Uniti.
Col Nobel per la pace assegnato a Liu Xiaobo, il livello dello scontro mediatico è destinato inevitabilmente a salire, e non è difficile pensare che la comunità internazionale possa usare l’argomentazione, sacrosanta, dei diritti umani per attaccare la Cina anche sul piano prettamente economico.
Ora il Partito comunista cinese è costretto a rispondere a quella che considera una provocazione, e le prime due cariche dello stato cinese, Hu Jintao e Wen Jiabao, non si sono ancora espresse in merito.
Nella storia recente, ad esempio durante le proteste contro la torcia olimpica a Parigi o in occasione delle sommosse tibetane della primavera del 2008, il governo ha sempre reagito col pugno di ferro, chiudendosi a riccio sulle proprie posizioni e contrattaccando a viso aperto ad ogni critica mossa. La reazione ufficiale, questa volta, indicherà il livello di maturità raggiunto dalla politica cinese.
Poiché, come detto molto chiaramente durante la conferenza stampa di Oslo, un grande potere comporta anche delle grandi responsabilità.
[Anche su Liberazione del 9 ottobre 2010]