Nobel a Liu Xiaobo: i dissidenti all’estero

In by Simone

Liu Xiaobo libero subito e con lui liberi tutti i detenuti politici.

È questo il messaggio per Pechino. Le varie anime di quella che alcuni definiscono dissidenza, ma che per altri può essere identificata come la società civile cinese, festeggiano l’assegnazione del premio Nobel per la Pace all’intellettuale condannato a 11 anni di carcere per sovversione.

“Per il popolo cinese è il giorno più bello da sessant’anni a oggi”, ha scritto Ai Weiwei sul suo account Twitter. Artista di fama mondiale, tanto da meritarsi l’onore di progettare il “Nido d’uccello”, lo stadio olimpico simbolo di Pechino 2008, Ai è presto diventato inviso alle autorità per le sue inchieste sulla morte di migliaia di bambini uccisi dal crollo delle scuole nel terremoto che colpì il Sichuan due anni fa. Una ricerca che gli costò interrogatori della polizia e un pestaggio.

“L’onore appartiene a chi ama la libertà”, ha continuato Ai con un invito a tutti i suoi lettori affinché spieghino “agli amici, ai familiari, ai colleghi chi è Liu Xiaobo e perché è amato dalle forze anti-cinesi”. Complimenti sono arrivati anche dalla comunità tibetana in esilio che a vent’anni di distanza ha potuto riassaporare la gioia che provò quando il comitato scelse il Dalai Lama, oggi tra i primi a congratularsi con Liu.
L’euforia è tanta, come ha confermato Renee Xia, responsabile internazionale di Chinese Human Rights Defender, contattata al telefono dal Riformista. “È una grande notizia”, ha detto, “All’università di Pechino alcuni attivisti hanno addirittura fatto esplodere fuochi d’artificio e sono stati fermati dalla polizia”.

Ma la notizia non è stata ancora confermata da altre fonti. “Il premio”, ha continuato Xia, “è un riconoscimento non soltanto per Liu, ma per tutti i difensori dei diritti umani in Cina che ora aspettano di essere liberati: l’ecologista Hu Jia, l’avvocato Gao Zhisheng di cui non si conosce il luogo di detenzione, l’attivista cieco Cheng Guangcheng”.

Sulla stessa linea Zhang Zuhua, attivista pechinese tra i firmatari di Charta08, il documento per chiedere riforme pacifiche al governo cinese costato l’arresto a Liu: “È stato come rendere omaggio a tutti i prigionieri di coscienza e alle migliaia di cinesi che hanno avuto il coraggio di firmare quel documento”. Per Cui Weiping, attivista e professoressa alla Beijing Film Academy: “Liu non ha sofferto invano, l’intero mondo è con lui e con tutti prigionieri di coscienza in carcere in Cina”. Certo l’entusiasmo sembra relegato ai circoli intellettuali e a chi naviga in rete. Un’ora dopo la proclamazione i ‘tweet’ sull’argomento avevano toccato quota 4.000.

Non sfugge però che le reazioni dei difensori dei diritti umani in Cina hanno voluto ricordare attivisti imprigionati per il loro impegno in campagne che riguardano da vicino la popolazione: per la tutela dell’ambiente, contro le demolizioni delle abitazioni e gli espropri forzati, contro la politica di pianificazione familiare che spinge i funzionari locali ad abusi contro i cittadini per far rispettare i limiti fissati da Pechino.

Se dalla Cina il coro degli attivisti sembra unanime a favore del ‘Fratello Liu’ -come lo ha definito Cui Weiping- la dissidenza all’estero sembra spaccarsi.

“Liu è diverso dagli altri dissidenti. È un moderato pronto a collaborare con il regime comunista e a criticare gli altri resistenti che soffrono”, ha detto Wei Jingsheng, padre dell’opposizione al Partito nell’era postmaoista, riparato negli Stati Uniti. La posizione di Wei non sembra isolata tra gli esuli.

Nei giorni scorsi un altro dissidente di primo piano, Lu Decheng, aveva firmato una lettera indirizzata al comitato per il Nobel, con cui definiva inopportuno assegnare il premio all’intellettuale cinese. “Ritiene che negli anni Liu abbia collaborato con il Partito comunista e dice di avere le prove per confermarlo”, ha spiegato Toni Brandi, direttore della sezione italiana della Fondazione Laogai, l’associazione fondata dal dissidente Harry Wu per diffondere informazioni sui campi di rieducazione attraverso il lavoro, dove lo stesso Liu passò tre anni. Dal canto suo l’associazione si è schierata con un comunicato a favore della decisione di Oslo.

“È tempo che Pechino liberi Liu e ascolti le sue proposte di cambiamento”, ha scritto lo stesso Wu. Certo restano le divergenze con quelli che dovrebbero essere i suoi compagni di lotta. “Le divisioni ricordano quelle degli antifascisti esuli in Francia”, ha commentato Brandi, “è triste vedere uomini che hanno condiviso l’esperienza della prigionia non parlarsi nemmeno”.

[Anch su Il Riformista del 9 ottobre 2010]