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Nato, Russia, Cina: si può davvero parlare di Terza Guerra Mondiale?

In Cina, Relazioni Internazionali by Gian Luca Atzori

Da settimane si speculava su una possibile invasione al termine delle Olimpiadi di Pechino, e così è stato.  I russi hanno riconosciuto i separatisti, invaso il Donbass per “assicurare la pace” e, questa notte, i primi missili hanno raggiunto la capitale Kiev. Per l’Onu il rischio di un conflitto su larga scala è sempre più concreto. Ma come si è arrivati a questo? È veramente a causa della Nato? Quali sono le condizioni e posizioni dei principali paesi e delle potenze orientali? Soprattutto, si può davvero parlare di terza guerra mondiale? Un lungo viaggio dal 1922 al 2022, dal Mediterraneo al Pacifico, passando per Libia, Siria e Afghanistan.

Nel suo articolo: “Le ragioni per cui Putin rischierebbe la guerra” pubblicato su The Atlantic, Anne Applebaum spiega che il presidente vorrebbe vedere fallire il sistema democratico e il processo di integrazione europea sempre più prossimi a casa sua. L’unica consapevolezza reale, tuttavia, è che, qualora si arrivasse ad uno scontro tra grandi potenze, saremmo davanti al terzo conflitto mondiale, esploso anche questa volta alle porte dell’Europa orientale. Uno spettro che non va certo sbandierato ma che, allo stesso modo, si pensava di aver sconfitto con “la fine della storia” di Fukuyama nel 1989, con il crollo del muro. Invece, ritorna oggi a rivendicare tutte le questioni irrisolte e ignorate da allora, a partire dal patto non scritto con Gorbachev che, si dice, prevedesse il ritiro russo ma anche la non estensione della Nato nell’Europa orientale. C’è anche chi dubita che un simile contratto ci sia mai stato o possa avere una reale validità diplomatica. Sta di fatto che di accordi ce ne sono stati diversi. Dopo la caduta del muro, l’Ucraina aveva il terzo arsenale atomico mondiale. Usa e Russia lavorarono alla denuclearizzazione. Buona parte dell’arsenale passò a Mosca con la garanzia che non avrebbe attaccato Kiev.

In seguito però nacque l’Ue, che integrò parte dell’ex blocco sovietico. Ora, è dal Summit di Bucarest del 2008 che all’Ucraina fu promesso di fare parte dell’Unione e del Patto atlantico (Nato), ma dopo 14 anni la nazione è ancora fratturata internamente mentre all’esterno è una terra di mezzo tra Washington, Bruxelles e Mosca, con Pechino in disparte, ad osservare attentamente. Putin ha già riconquistato la Crimea nel 2014, in risposta alla rivoluzione di Kiev che cacciò il presidente a lui affine Viktor Janukovyč. Ad oggi il conflitto è già costato la vita a circa 14 mila persone e i due schieramenti hanno già mobilitato circa 400 mila soldati. Putin ha riconosciuto le repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk e mandato truppe per operazioni che per Mosca devono “assicurare la pace”. La Russia pretende garanzie che l’Ucraina non entri nella Nato, ma gli Usa hanno ribadito che il futuro dell’Ucraina appartiene al suo popolo.

opinione pubblica ucraina
RUSSIA: L’insostenibilità economica ed energetica del conflitto

L’espansione del Patto atlantico in Europa negli ultimi decenni è stata un successo innegabile per gli Usa e le preoccupazioni di Mosca sono in parte comprensibili (Mappa). Come dichiarato dal segretario Nato Jens Stoltenberg: “Fra tre mesi inizierà negli Usa la produzione delle nuove bombe nucleari B61-12, che saranno schierate in Italia e altri paesi europei, anche a Est e più a ridosso della Russia.”

Espansione Nato

Tuttavia, le pretese di Putin non mirano solo a opporsi alla Nato e riportare il governo di Kiev nell’orbita russa, ma anche a riconsolidare il suo potere politico in patria. Infatti, al contrario di quanto affermato dalla propaganda, in Russia la condizione politica, sociale e soprattutto, economica, non è attualmente delle migliori. Innanzitutto, il PIL russo è molto inferiore a quello italiano, vale quanto quello di Olanda e Belgio, cioè quanto l’8% del PIL dell’Ue. Per la World bank, al 2020, il Pil Pro capite era inferiore a quello cinese o, in altre parole, 150 milioni di russi condividevano meno di un terzo della ricchezza pro capite di 60 milioni di italiani.

Come confermato da esperti e analisti, i costi di un conflitto sarebbero insostenibili per tutti, soprattutto per il Cremlino. Secondo il Ministero delle risorse naturali e dell’ambiente della Russia, nel 2019, gas, petrolio e altre risorse naturali ammontavano al 60% del PIL, rendendo Mosca, prima che Bruxelles, soggetta a forti crisi legate alle oscillazioni dei prezzi. C’è un rapporto di reciproca dipendenza che lascia meno spazio di quanto si pensi ai ricatti energetici. Infatti, il 72% dell’esport di gas naturale russo è diretto all’Europa e i paesi Ocse. Di certo, però, dopo l’invasione della Crimea, l’Ue non è stata in grado di ridurre la dipendenza dal gas russo come aveva dichiarato, anzi ha ridotto la produzione di un quarto e aumentato i consumi del 10%. Nelle parole del Ministro Cingolani, oggi, nel consumo di gas italiano, la Russia pesa per il 45%.

russian gas export 2020

Politicamente però, in Russia, c’è meno ricambio della Cina, lo Stato di diritto e le principali libertà civili sono fortemente compromesse, a tal punto che Putin sta riscrivendo la storia dell’Ucraina sui media con la sua personale reinterpretazione. Socialmente, la pandemia non ha fatto brillare la gestione socio-sanitaria del Cremlino (10% sotto la media mondiale di vaccinazioni) e secondo The Economist, i redditi medi reali nel 2020 sono stati del 10% inferiori a quelli del 2013, ripercussione delle sanzioni post-Crimea e delle spese in armamenti, personale pubblico o pensioni che, insieme ad altri fattori strutturali, hanno portato l’economia a stagnare.

CINA E ASIA: Una crisi scomoda anche a Pechino

L’UE vuole risollevarsi dalla crisi e gli Usa guardano al Pacifico e alla contrapposizione con la Cina che, per alcuni, potrebbe scorgere nella crisi Ucraina un nuovo pretesto, dopo l’Afghanistan, per riprendersi Taiwan. Lo ha ripetuto due giorni fa anche Boris Johnson, affermando “la minaccia su Taiwan si aggrava se l’Europa non difende l’Ucraina”. Ora, tenendo a mente che le due situazioni non sono speculari tra loro, la “questione Taiwan” è tra le principali ragioni per cui gli Usa non possono cedere a Putin ma al tempo stesso non possono lasciarsi trascinare dentro un confronto capace di togliere priorità al Pacifico. Non vogliono intervenire direttamente ma affermano che sosterranno Kiev.

Mentre l’Onu condannava Putin, la Cina, come un’equilibrista, diceva che “la sovranità va rispettata” ma anche “no alle sanzioni”, ribadendo l’impegno diplomatico per evitare uno scontro. Viste le pressioni nel Mar cinese, Pechino sembra appoggiare Mosca nell’opporsi alla Nato, ma è in una situazione molto complessa. Il conflitto di Kiev segnerà i limiti o le potenzialità inespresse della collaborazione Mosca-Pechino. Xi è portato a cercare di tenere insieme più contraddizioni, ovvero l’allineamento degli interessi anti-americani con la Russia, gli investimenti in Europa e Ucraina con la Nuova Via della Seta, la politica di non-interferenza, la crescita delle tensioni nel Mar cinese e le sue rivendicazioni territoriali, che nulla hanno da spartire con quelle di Mosca. Appoggiare i separatisti del Donbass, infatti, potrebbe significare per estensione riconoscere rivendicazioni indipendentiste mai sostenute prima, a partire da quelle di Taiwan, ma anche in Tibet e Mongolia, o persino, in Catalogna e altre zone. Per questo la migliore soluzione per Pechino, per quanto complessa, sarebbe quella di ergersi come pacificatore tra le parti.

obor

Come riportato anche da The Diplomat, la Cina potrebbe infatti non giovare di una situazione di tensione permanente e di un aumento del livello della tensione globale, anche perché, a differenza dei paesi Nato, Pechino non ha nessun obbligo militare nei confronti di Mosca. Per Pei Minxin, c’è poi una differenza sostanziale tra Putin e Xi nelle vicende ucraine e taiwanesi. Il primo più che volersi riprendere l’Ucraina, tende alla diplomazia coercitiva. Mentre Taiwan per i cinesi non è un pretesto per fare rivendicazioni diplomatiche, non è un mezzo, è il fine. Motivo che ha portato anche il Giappone, a quasi 120 anni dalla guerra russo-giapponese, a condannare le azioni di Putin per timore che Pechino possa emulare o trarre giovamento dalla distrazione americana. Perciò, per Pei, qualora ci fosse un conflitto prolungato i costi diplomatici e socio-economici per Mosca sarebbero talmente gravi che Putin potrebbe facilmente finire per perdere consenso (in patria e all’estero) e divenire sempre più soggetto alla volontà di Xi.

Taiwan, definito da The Economist come “il posto più pericoloso della terra”, mostra il suo sdegno in particolare dopo le dichiarazioni di Putin sull’appartenenza dell’isola a Pechino che, come riporta Lorenzo Lamperti, il 2 marzo  si prepara a ricevere Mike Pompeo, ex segretario di stato di Trump. Anche Moon Jae-in, presidente sudcoreano, ha condannato le azioni di Putin, mostrando preoccupazione per la resilienza delle filiere produttive e richiedendo che la sovranità ucraina venga rispettata.

Non si può dire lo stesso per India e sud-est asiatico. Da una parte, T.S. Tirumurti, rappresentante Onu indiano, ha dichiarato di essere “molto preoccupato per la pace e la sicurezza nella regione” ma al tempo stesso l’India non ha condannato il riconoscimento russo delle repubbliche separatiste ucraine. Nel Sud-est invece, la Russia è uno dei principali fornitori di energia e armamenti e, secondo Kent Wong, direttore finanziario di VCI Legal in Vietnam, la regione potrebbe guadagnare da una diversificazione dovuta alle incertezze degli investimenti russi e cinesi in est Europa. Questo perché l’energia russa è un forte motore di crescita per l’area e tre dei 10 principali partner commerciali russi si trovano qui. La Russia è il terzo produttore di petrolio e gas e potrebbe decidere di incidere maggiormente sui prezzi, soprattutto per una regione che consuma il 35% di petrolio ma ne produce solo l’8%.

NATO, USA E UE: L’opposizione liberal-autoritaria e il dilemma della sicurezza

L’opposizione liberal-autoritaria e il dilemma della sicurezza, ovvero, le preoccupazioni per le reciproche espansioni militari tra Nato e Russia, sono al centro della questione. Mosca ha più volte tentato di sabotare il processo democratico, non solo in patria. Secondo gli studi di Geir Karslen pubblicati su Nature, la Russia è il paese straniero che più di tutti influenza l’Unione nel tentativo di dividerla, dalla Brexit ai rapporti con i partiti. Lo stesso vale per le interferenze che negli Usa portarono all’elezione di Trump. Inoltre, Putin dispone della seconda potenza atomica al mondo e negli ultimi anni ha espanso notevolmente la sua influenza su stati che hanno avuto e potrebbero avere simili rivendicazioni con Mosca. A maggior ragione, se pensiamo alle ripercussioni anche solo economiche che il conflitto avrà sui paesi della propria orbita, a partire dal Kazakistan, già in grave crisi. La principale minaccia definita “senza precedenti” di Biden a Putin riguarda infatti il tagliare la Russia fuori dal sistema economico internazionale (SWIFT), un’azione che porterebbe ad un’escalation drammatica. Questo per via delle forti interconnessioni tra i sistemi economici, anche se c’è chi specula sulla creazione di un sistema economico alternativo con la Cina e altri paesi.

Per Borrell, Alto rappresentante Ue, le sanzioni europee e americane sono pronte ma vogliono tenere aperte le porte al dialogo. L’Ue però è coesa sulla condanna ma divisa sulle sanzioni. Coesa perché persino paesi del vecchio blocco sovietico e meno allineati al processo di integrazione, come Ungheria e Polonia, hanno criticato Putin. Divisa perché da una parte la Germania dichiara di bloccare il Nord Stream 2, dall’altra Draghi non è convinto delle sanzioni energetiche e si dice stia lavorando ad una mediazione tra il presidente ucraino e russo, ma la situazione sembra mettere al centro più l’energia che la pace, soprattutto di fronte anche ad una maggioranza che in apparenza si mostra unita, ma che all’interno presenta enormi differenze tra chi definisce Putin “dittatore sanguinario” e i sovranisti che in più occasioni hanno espresso stima per lui e il suo regime, si son presentati a Bruxelles con la sua faccia stampata sulla maglietta o sono coinvolti in affari poco trasparenti col Cremlino. Le sanzioni saranno graduali ma Biden assicura che saranno anche più dure rispetto al 2014, colpiranno le banche russe che operano in Donbass e cercheranno di limitare ll’accesso ai mercati europei di Mosca e dell’élite oligarchica.

Tuttavia, non si può dire certo meglio delle azioni svolte dalla Nato. Nella ricerca e definizione del casus belli, Putin parla di “genocidio” e di “missione di pace”, con gli stessi toni utilizzati in passato dalla Nato per violare la sovranità di altri paesi. Negli ultimi decenni, i paesi europei hanno sempre assorbito le maggiori conseguenze dei suoi interventi, dal medio oriente al nord Africa, per cui ancora il Mediterraneo paga un carissimo prezzo. Interventi spinti da moventi inventati (v. armi nucleari in Iraq che non c’erano), mascherati anch’essi da “missioni di pace” e che hanno portato alla morte di milioni di civili innocenti in pochi anni.  Per diversi fautori dell’integrazione europea finché l’UE non avrà un proprio esercito sovranazionale (o almeno più figure con più peso militare oltreché politico) non potrà avere una politica estera autonoma e indipendente. Anche perché lo scopo della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA) nata nel 1951, che portò all’Ue di oggi, era proprio quello di evitare che l’ennesimo conflitto mondiale scoppiasse nel cuore o alle porte dell’Europa.

Si può davvero parlare di WW3?

Ora a parlare di terza guerra mondiale è Biden, qualche anno fa fu Papa Francesco nel riferirsi al disastro medio orientale e alla Siria. Disse che il terzo conflitto poteva essere iniziato senza che noi ce ne accorgessimo, così come non se ne accorsero nel passato. Furono gli storici a decidere quando iniziarono i conflitti, a dibattere sul casus belli. Simili avvenimenti non sono mai frutto di un singolo evento. Per gli occidentali la Seconda Guerra scoppiò nel 1939 con l’invasione tedesca della Polonia, mentre in oriente fu nel 1937 che “lo stupro di Nanchino” e l’invasione giapponese della Cina segnarono un punto di non ritorno.

Non da meno, la guerra in Afghanistan in 20 anni vide coinvolte circa il doppio delle potenze che presero parte alla Prima Guerra Mondiale. Ed è proprio la Grande Guerra di un secolo fa che, oltre ai leader, fa ancora interrogare gli storici. Se infatti le motivazioni che portarono al 1939 sono piuttosto condivise, ciò che condusse al 1915 è ancora motivo di dibattito tra gli esperti, ma soprattutto, le sue cause sono ancora attuali. Per esempio: le rivendicazioni dell’Isis risalgono all’accordo Sykes-Poirot del 1916 con cui gli europei spartirono i resti dell’Impero Ottomano promettendo un futuro Stato Islamico. Le rivendicazioni della Russia risalgono alla rivoluzione sovietica e al 1922, cento anni fa esatti, quando l’Ucraina entrò ufficialmente nell’URSS. Le rivendicazioni della Cina su Taiwan risalgono al 1949, ma i moventi nascono dall’opposizione tra nazionalisti e comunisti, frutto anch’essa del primo conflitto mondiale, del trattato di Versailles e della rivoluzione sovietica.

Non solo, secondo Margaret MacMillan, storica dell’Università di Oxford, ciò che più richiama il passato è l’ordine geopolitico di oggi. Durante la guerra fredda si aveva un ordine bipolare, con due sole grandi potenze contrapposte (considerato il sistema più stabile per l’equilibrio di poteri teorizzato da Waltz). Dopo il 1989 abbiamo avuto un decennio di clima unipolare, con una sola superpotenza, gli Usa. Oggi, invece, come nel ‘15 e nel ‘30, abbiamo un clima multipolare (non multilaterale come vorrebbe l’UE), con la contrapposizione di più di due grandi potenze. Questo è il sistema meno stabile in assoluto, capace di sabotare anche i migliori interessi diplomatici e economici. Qui, le gare agli armamenti e il “dilemma della sicurezza” innescano pericolosi ragionamenti a somma zero, mettendo in discussione le istituzioni sovranazionali e riportando all’anarchia geopolitica. La base per un nuovo ordine mondiale, per un conflitto globale o per entrambi. Per alcuni la situazione di oggi ricorda la crisi cubana, ma per l’appunto, bisogna considerare una crisi di quel calibro in uno schema geopolitico decisamente più instabile, conteso e controverso.

C’è chi è convinto che il deterrente nucleare sarebbe sufficiente a impedire tutto ciò. Da una parte è vero, nel 1915 non c’erano testate nucleari. Eppure, come ribadito dalla MacMillan, anche nei precedenti conflitti vi erano deterrenti estremamente validi, dalle nuove tecnologie belliche difensive alle devastanti armi chimiche e biologiche. Ogni volta che un simile spauracchio è tornato negli ultimi 20 anni, hanno riecheggiato parole che tutti, soprattutto i leader, si spera ricordino sempre “non conosco le armi della terza guerra mondiale, ma solo quelle della quarta: sassi e bastoni”