statua abbattuta del presidente kazako Nursultan Nazarbaev

Kazakistan, le proteste oltre la crisi dei prezzi sul carburante

In Asia Centrale, Economia, Politica e Società by Sabrina Moles

Nel paese più grande e stabile delle repubbliche centrasiatiche sembra crollare l’impalcatura di certezze dell’era post-Nazarbayev. Una prospettiva sul malcontento che attraversa la società

Il Kazakistan sta vivendo la protesta più violenta degli ultimi anni. A far traboccare il vaso è stata una goccia di carburante: dal 1° gennaio il governo ha rimosso i limiti ai prezzi sul gas propano liquido (Gpl) e il risultato è stato un immediato raddoppio delle cifre sui cartelloni delle stazioni di rifornimento. I cittadini hanno iniziato a manifestare nel fine settimana a Zhanaozhen, tra i maggiori centri petroliferi del paese, nell’estremo sud-ovest. La macchia si è poi estesa fino ad Almaty, la capitale economica, ed è poi esplosa in tutte le principali città kazake.

Mercoledì 5 gennaio il presidente Kassym-Jomart Tokayev ha dichiarato lo stato d’emergenza fino al 19 gennaio e ha confermato le dimissioni del governo. Nel frattempo, le comunicazioni hanno subito rallentamenti e blocchi. Non solo Whatsapp, ma anche Telegram, Facebook e la cinese WeChat hanno subito delle restrizioni nelle ore più calde delle proteste, nel tentativo di rallentare la circolazione di messaggi e video. A questo si sono aggiunti collegamenti telefonici a singhiozzo, mentre le emittenti televisive hanno interrotto le trasmissioni.

Il bilancio è di centinaia di feriti, e quasi una ventina di vittime. Gli arresti avrebbero superato le due migliaia, con interventi anche in Russia, dove si manifesta contro l’intervento armato a sostegno del governo kazako.

Il palazzo comunale di Almaty in fiamme (Fonte: Twitter)

Proteste in Kazakistan: il dilemma energetico, ma non solo

Il tono delle manifestazioni si è presto acceso davanti allo scontro con le forze dell’ordine. Migliaia di cittadini hanno fatto irruzione nel municipio di Almaty, che ha preso fuoco. In fiamme anche la sede locale del Nur Otan, il partito al governo. In alcuni centri sono state sfregiate le statue dedicate all’ex presidente Nursultan Ábishuly Nazarbyev, che dopo la dissoluzione dell’Urss ha governato il paese per oltre vent’anni. Ad Aktobe e Atyrau, la polizia ha rifiutato di intervenire contro i manifestanti che hanno assediato la sede del governo regionale. Il presidente Tokayev ha chiesto rinforzi all’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (Csto), alleanza multilaterale per la sicurezza a guida russa. Alcuni alleati hanno preferito non intervenire (come nel caso del Kirghizistan), mentre Mosca ha inviato tremila uomini.

Proteste ad Aktobe (Fonte: Twitter)

Il quadro generale è quello di un’esplosione di malcontento capillare, sintomo di un problema contingente (l’aumento dei prezzi del carburante) ma anche espressione di tensioni sociali, politiche ed economiche strutturali. Il Kazakistan è il dodicesimo produttore al mondo di petrolio, e possiede tanto carbone da inibire le timide iniziative di transizione energetica (la Iea prevede che le fonti fossili continueranno a dominare il mercato energetico almeno fino al 2040). A rappresentare un’alternativa era, da qualche tempo, il Gpl. Gestito attraverso un mercato regolamentato e dal prezzo vantaggioso, il Gpl aveva spinto la nuova ondata di conversione dei veicoli dei cittadini kazaki.

Poi sono iniziati ad arrivare i primi squilibri: la disponibilità interna di Gpl ha iniziato a scendere perché esportato illegalmente all’estero, dove i prezzi erano più alti di quelli locali e il margine di profitto significativo. Nel frattempo, la domanda interna non era mai stata così alta. Il dilemma energetico è lo stesso di molti altri paesi ricchi di fonti fossili: si esporta molto, mentre parte del paese fatica ad accedere a queste risorse. Se a ovest, dove si trovano il 98% delle riserve di gas naturale, il problema è di natura economica (lo strapotere dei privati legati alla leadership politica e l’occupazione dipendente dal petrolio), a nord mancano ancora le infrastrutture energetiche essenziali (in una zona dove le temperature invernali scendono a -20°, il gas viene importato dalla Russia).

Il contesto e le prospettive

“Shal ket (i vecchi devono andarsene)”. Questo è uno degli slogan urlati dai manifestanti, un gruppo eterogeneo che esprime diverse istanze della società civile. “Le proteste emergono per la questione energetica, ma sono soprattutto un modo per la popolazione kazaka di esprimere la propria opinione, cosa  resa impossibile dal livello di autoritarismo (non ci sono elezioni libere) e dai due anni di restrizioni della pandemia”, spiega Giulia Sciorati, assegnista di ricerca presso l’Università di Trento e Ispi fellow. “Inoltre, c’è stato il precedente delle proteste in Kirghizistan”.

I cittadini che manifestano non sono parte di un fronte unito. “Se le proteste mettono insieme buona parte della low and lower middle class kazaka con una demografia che comprende tutta la popolazione e non solo i giovani”, continua Sciorati, “hanno attirato anche gruppi violenti”. Manca inoltre “una geografia di riferimento”, spiega, “perché le proteste si estendono in tutto il paese”.

Dallo scoppio delle manifestazioni la narrazione ufficiale appare incoerente. Tokayev assicura le dimissioni dell’ex presidente Nazarbayev dalla carica di capo del Consiglio di sicurezza e promette un ritorno alla regolarizzazione dei prezzi. Ma nello stesso tempo il presidente rilancia parlando di terrorismo finanziato da forze straniere non meglio specificate. “Sicuramente è una crisi inaspettata per la leadership, soprattutto per i toni violenti delle manifestazioni”, commenta Sciorati, “Minaccia inoltre l’immagine che il Kazakistan cerca di portare sul piano internazionale, ovvero di paese più stabile tra le cinque repubbliche centrasiatiche”.

Quello che emerge è un quadro complesso, e dal futuro molto incerto. Conclude Sciorati: “Non è chiaro se questa situazione porterà a un rimpasto tra chi ha effettivamente il potere. Rimane il fatto che si sottolinea la percezione di illegittimità della presidenza dopo il passaggio di consegne del 2019”.