Nata socialista, intervista a Zhang Li Jia

In Interviste by Simone

«Non voglio fare l’operaia, voglio fare la giornalista!» si lamenta la piccola Zhang quando la madre le propone di prendere il suo posto in fabbrica. Ma non è possibile controbattere alle ragioni di una madre («è una ciotola di riso di ferro»), specie se hai un padre con «problemi politici» e una nonna che si è dovuta prostituire per sopravvivere, specie se quello è il probabile destino di tutti coloro che nascono in quel villaggio. Così, nel dicembre del 1980 la sedicenne Zhang si ritrova a lavorare alla fabbrica statale di missili di Nanchino, nell’ambita posizione di «controllore dei manometri», reparto 23.

“Per dieci anni mi sono sentita come una rana nel pozzo, sapevo che fuori di lì esisteva tutto un altro mondo, dove avrei potuto essere felice”, commenta l’autrice.

Socialismo è grande! Memorie di un’operaia della Nuova Cina (Ed. Cooper, 18 Euro) è il suo primo libro. “Il titolo del libro ricalca quello di una canzone socialista che tutti dovevamo cantare il primo luglio, nell’anniversario della nascita del Partito comunista cinese. C’erano delle vere e proprie gare a cui dovevamo partecipare. Vinceva chi cantava con più convinzione”.

Zhang Lijia racconta la sua storia. È nata nel 1964 vicino Nanchino, sulle rive del fiume Azzurro. Oggi è una giornalista affermata. La sua educazione, come quella di tutta la sua generazione, è avvenuta alla fine degli anni Settanta, quando la Rivoluzione culturale stava perdendo di intensità ma la propaganda del Partito ancora imponeva comportamenti e limitazioni personali impensabili nella Cina odierna. «Non ero diventata operaia modello del reparto per colpa del nostro istruttore politico Wang. L’avversione che provava nei miei confronti nasceva dal sospetto che avessi la permanente. Solo i “borghesi decadenti” si facevano arricciare i capelli».

 

Quando la incontriamo ci stupisce il suo accento british, lo sguardo fermo e la schiena dritta. Indossa un qipao di seta rosa arabescata, gli stivali e le calze a rete nere. Un fiore, anch’esso rosa, esalta i capelli, ancora oggi mossi. L’insieme ci permette di riconoscere nella giornalista di oggi il carattere fiero di quell’operaia entrata in fabbrica appena sedicenne che non riusciva a far carriera per via dei riccioli naturali («Ma non poteva venirmi a chiedere se i miei capelli erano naturali?»).

Il suo libro racconta l’educazione sentimentale di una ragazza che scopre l’Occidente attraverso lo studio solitario e caparbio della lingua inglese ed è insieme la memoria collettiva di un popolo che si confronta con le riforme volute da Deng Xiaoping, quell’apertura al mondo esterno che ha trasformato la Cina nell’attuale potenza economica.

“Racconto gli anni Ottanta perché è un periodo importantissimo della storia recente cinese che è stato trattato molto poco. Erano anni difficili, ma la gente era piena di entusiasmo. Adesso che il governo ha riconosciuto all’individuo il diritto ad arricchirsi, le persone hanno smesso di preoccuparsi del futuro e hanno anche smesso di leggere e di informarsi. Invece noi, in quegli anni, eravamo attratti da tutto ciò che non conoscevamo e discutevamo ingenuamente su come costruire un futuro migliore per la Cina. Quelli erano gli anni in cui al potere c’erano i riformisti Hu Yaobang e Zhao Ziyang. Noi pensavamo di poter contribuire a quella politica. Anche per questo il libro si chiude con le proteste organizzate nella mia fabbrica di Nanchino in supporto agli studenti radunati in piazza Tiananmen”.

La polizia la volle interrogare per essere stata tra gli organizzatori di quelle proteste, forse l’avrebbero anche arrestata. La sua fortuna fu quella di aver incontrato l’anno prima, mentre era in visita alla Città proibita, un giovane scozzese. “Ci piacevamo e avevamo deciso di rincontrarci lungo l’antica Via della seta. Lui era partito prima che i carri armati entrassero a Pechino e io dovevo raggiungerlo nonostante i continui interrogatori. Inscenai un crollo nervoso e, certificato di malattia alla mano, mi precipitai nello Xinjiang. Qui sbocciò la nostra storia d’amore. La Cina non sarebbe mai più stata la stessa.” Fa una pausa, sorride e aggiunge: “Neppure io”.

I due si trasferirono in Gran Bretagna e si sposarono. Lijia studiò all’università di Londra diventando così «il membro della famiglia Zhang con il più alto grado di istruzione». Tornò a Pechino come giornalista freelance. Oggi lavora per importanti media stranieri: scrive per il New York Times, il Guardian, l’Indipendent, e il Newsweek; lavora per la Bbc e per altri importanti magazine. Se le si chiede un’opinione sulla Cina attuale risponde: “Il popolo cinese ha appena cominciato a beneficiare di opportunità e libertà che negli anni Ottanta non avrei neppure immaginato. Per i più la gabbia comunista è diventata sufficientemente larga da permettere di ignorarne i limiti. La mia adorata nonna viveva in un piccolo villaggio del sud della Cina, era analfabeta e in gioventù le avevano fasciato i piedi; le mie splendide figlie vivono a Pechino, nel quartiere delle ambasciate. Tra di loro parlano inglese.”

Pubblicato su Left, 12 febbraio 2010

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