Myanmar: uccisa bambina di 7 anni. Incendio nel campo Rohingya

In Economia, Politica e Società, Sud Est Asiatico by Redazione

C’è anche una bambina di 7 anni, Khin Myo Chit, uccisa martedì all’interno della sua abitazione di Mandalay, tra le vittime della repressione feroce del Movimento di disobbedienza civile in Myanmar. Continua a salire, dunque, il numero dei morti e degli arresti – rispettivamente 275 e 2.418 secondo la Assistance Association for Political Prisoners-Burma -, e aumentano gli scontri tra gli eserciti delle autonomie regionali e il Tatmadaw, l’esercito birmano che risponde alla giunta.

Mentre chi scappa dalle sue maglie trova rifugio e protezione proprio dagli avversari armati dei golpisti. Una situazione che rischia di incendiare anche militarmente le periferie dove sempre più si registrano scontri tra autonomie e Tatmadaw (Karen, Kachin etc). L’Ue lunedì ha stabilito sanzioni anche verso il Myanmar, ma si deve arrivare a pagina 40 del testo che riassume le decisioni del Consiglio dei Ministri degli Esteri per trovare la scheda che lo riguarda: un paio di paginette per mettere sotto i riflettori i militari birmani impedendo loro l’ingresso in Europa e congelandone i beni, sanzioni in parte già previste all’epoca del dossier Rohingya nel 2018. Un testo vago e blando che colpisce dieci militari e un civile, tanto che l’Associazione Italia-Birmania Insieme commenta: «Il mancato blocco delle imprese riconducibili al Tatmadaw, comprese le banche e le assicurazioni, permetterà ai militari di continuare a fruire dei profitti accumulati e consentirà l’accesso alle risorse finanziarie all’estero». Sembra comunque che alcuni Stati membri dell’Ue spingano per imporre ulteriori sanzioni, anche contro le società controllate dall’esercito.

In passato, le sanzioni non sono state sufficienti a evitare la repressione nei confronti della comunità dei Rohingya, che nell’estate del 2017 ha subito un «tentato genocidio». Circa 750.000 persone hanno così dovuto lasciare lo Stato birmano del Rakhine trovando rifugio negli accampamenti bangladesi di Cox Bazar e dintorni. Quell’area ospita più di 1 milione di rifugiati Rohingya ed è il più grande e popoloso campo profughi al mondo, distribuito su più di 3.ooo ettari di terreno.

Nel primo pomeriggio di lunedì, un incendio è divampato in quattro sezioni del campo di Balukhali, che ospita circa 90.000 persone, estendendosi poi altrove. Ci sono volute quasi dieci ore e mille volontari per domare le fiamme, che hanno divorato tutto, a partire dalle semplici case dei rifugiati, fatte di bambù, incerata, plastica. Il giorno dopo, la devastazione era evidente.

Secondo l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati, sarebbero almeno 15 le vittime, 560 i feriti, 400 i dispersi. Tra questi, diversi bambini. Le immagini sono drammatiche. Distese di macerie, terra bruciata, polvere e cenere ovunque. In piedi, soltanto alcune strutture in muratura. Almeno 45.000 le persone costrette a fuggire. Bruciate anche cliniche, centri di distribuzione per il cibo, un mercato, la più attrezzata clinica gestita dall’Oim, l’organizzazione internazionale per le migrazioni. Dal giorno alla notte, i Rohingya hanno perso tutto. Ancora incerte le cause dell’incendio, il più grave, ma non il primo ad avvenire nei campi profughi negli ultimi mesi. Qualcuno non crede alle coincidenze, ma le autorità bangladesi – che continuano i trasferimenti dai campi di Cox Bazar all’isola di Bhashan Char – assicurano l’apertura di un’inchiesta.

Alcune responsabilità sarebbero però già evidenti: secondo molte ricostruzioni, il filo spinato che delimita i campi profughi, voluto dal governo e già criticato dalle organizzazioni per i diritti umani, avrebbe aggravato il bilancio di vittime e feriti. Tra loro, molti non sarebbero riusciti a fuggire a causa delle barriere, che avrebbero ostacolato anche i soccorsi. Secondo Jan Egeland, segretario generale del Norwegian Refugee Council, «se non ci fossero state le barriere» il bilancio delle vittime sarebbe stato inferiore. «Il governo rimuova le barriere e protegga i rifugiati», è tornato a chiedere tra gli altri John Quinley dell’associazione Fortify Rights, che già nell’ottobre 2020 aveva denunciato il completamento di 28 chilometri di barriera di filo spinato intorno ai campi di Kutupalong e del cosiddetto «Balukhali Expansion Camp».

[Pubblicato su il manifesto]