La Mongolia vuole sedersi al tavolo con le maggiori potenze mondiali per risolvere la tensione in Corea. La rapida espansione economica e la storica amicizia con Pyongyang fanno della Mongolia il mediatore ideale. Che ora punta a estendere la propria influenza diplomatica su altre situazioni delicate. Negli Anni ’40 del secolo scorso, tra le macerie della Seconda Guerra mondiale, la Mongolia fu il secondo Paese a riconoscere la Repubblica democratica popolare della Corea, preceduta soltanto dall’Unione sovietica.
È in forza di questo rapporto speciale – "una relazione unica", come ha affermato nel 2011 il presidente mongolo Tsakhia Elbegdorj – che ora proprio la Mongolia potrebbe diventare il mediatore nel dossier più caldo del pianeta: Pyongyang contro il resto del globo.
La rete dei rapporti tra i due Paesi si è costruita nel corso del tempo, grazie a parecchie accortezze diplomatiche. Alla morte dell’ex dittatore nordcoreano Kim Jong-il, nel dicembre 2011, i leader della Repubblica centro-asiatica furono tra i primi a inviare le loro condoglianze alla famiglia del Caro leader, inserendo la morte del dittatore nordcoreano tra i dieci eventi più importanti dell’anno.
Grande risalto ebbe anche, sulla stampa mongola, la visita del novembre 2012 di Choe Tae-bok, presidente dell’Assemblea suprema del popolo, il Parlamento fantoccio nato sotto la dinastia dei Kim.
Per il governo di Ulaan Baatar, fiorente capitale mongola, tentare di disinnescare la bomba nordcoreana potrebbe essere un’occasione importante. Il regime di Pyongyang è infatti entrato in rotta di collisione non solo con gli Usa, il Giappone e la Corea del Sud. Bensì, almeno a parole, anche con i fratelli cinesi e il líder maximo cubano.
Con la Corea del Nord, invece, il vecchio satellite sovietico ha stretto legami di lunga data, nonostante un raffreddarsi dei rapporti negli anni che seguirono la fine dell’Urss. E ancora adesso, con i missili puntati verso Est e i Patriot schierati nel centro di Tokyo, la Mongolia preferisce restare neutra e non emettere condanne.
A novembre del 2012 la Mongolia ospitò un giro di colloqui tra i rappresentanti di Tokyo e di Pyongyang, per cercare una soluzione alla vicenda dei giapponesi sequestrati dai nordcoreani, che il neopremier Shinzo Abe vuole assolutamente risolvere prima della conclusione del suo mandato.
"Ora possiamo dare il nostro contributo", ha specificato il primo ministro mongolo Norov Altankhuyag, esponente di centro destra al governo dallo scorso giugno. Prima di lui a proporsi come mediatore era stato il ministro degli Esteri, Luvsanvadn Bold, spiegando la sua intenzione di tentare un’apertura con il regime dei Kim. Necessaria perché persino il governo cinese e i fratelli Castro, gli unici altri comunisti rimasti al mondo, hanno preso le distanze da Pyongyang.
Quella tra la Mongolia e la Corea del Nord è una vecchia liaison, cementata da un passato comune, ma anche da crescenti interessi economici. E magari da prospettive future.
Nel 2011 fu sempre il capo di Stato mongolo Ebergdorj, intervenendo alla Foreign Policy Association a sottolineare come, 20 anni prima, ai tempi del regime sovietico la Mongolia fosse una società non dissimile a quella della dinastia dei Kim. "Oggi invece è un campione della lotta per la democrazia", aggiunse Ebergdorj.
Il Paese delle steppe è anche una tigre asiatica in rapida espansione, con una crescita economica a doppia cifra (+17,5% nel 2012) e un settore minerario in pieno sviluppo che solletica gli istinti nazionalisti (e alimenta la corruzione: la Mongolia si colloca in 94esima posizione, su 176 Paesi nell’indice di Transparency International). L’enorme giacimento di Oyu Tolgoj (oro e rame) da solo è destinato a produrre un terzo del Prodotto interno lordo mongolo. La capitale Ulaan Baatar, dove vive il 38% della popolazione, è un importante centro industriale per la produzione tessile e la lavorazione di materie prime.
Ora il segno mongolo del libero mercato si traduce nel progetto di collegamenti ferroviari che dalla Corea del Sud si spingano verso l’Europa, attraversando proprio le steppe. Insomma, questa sorta di Svizzera spuntata tra le macerie post-comuniste in mezzo all’Asia vuole giocare un ruolo anche nel campo della diplomazia.
In fondo, sia il regime dei Kim sia la democrazia mongola sono produttori di materie prime e cercano forme di cooperazione economica. Entrambi hanno nella Cina il principale acquirente. Ma, almeno da parte mongola, c’è la volontà di diversificare i clienti. In questo contesto, si punta a sviluppare le infrastrutture che connettono con la Russia e la Corea del Nord.
Per questo, Ulaan Baatar potrebbe presto aver voce in capitolo su altre dispute nella regione, come le contese territoriali tra Giappone e Russia per la sovranità sulle isole Curili.
[Scritto per Lettera43; foto credits: russiancouncil.ru]