L’unità pluralistica della nazione cinese

In by Simone

Analisi delle teorie cinesi sul concetto di nazione per una valutazione delle possibili ragioni storiche dei disordini in Xinjiang nel luglio 2009.

Marzo 2008: Tibet. Luglio 2009: Xinjiang. Negli ultimi anni la stabilità politica della nazione cinese è stata minata da fenomeni di rivolta, che hanno guadagnato l’attenzione dei media internazionali attraverso una generale condanna della dura repressione messa in atto dalle autorità.

Separatismo, è questa la parola che unisce le due sollevazioni: quella del Tibet associata all’attività del Dalai Lama, quella del Xinjiang al terrorismo e all’estremismo islamico. Passando in rassegna comunicati ufficiali, articoli su carta stampata e servizi televisivi, la risposta propagandistica delle autorità riprende formule note sin dagli anni Ottanta, quando l’abbandono della retorica socialista in virtù dell’apertura al mercato lasciò un vuoto ideologico da colmare. Da allora il tema dell’unità della nazione cinese è stato eletto a ideologia predominante, mentre il nazionalismo è divenuto un vero emblema coesivo di massa.

Per questo motivo, le teorie sulla nazione cinese (Zhōnghuá Mínzú, 中华民族), pur essendo state elaborate sulla base di un’interpretazione storica, restano inevitabilmente legate a necessità ideologiche; esse  muovono dall’assunto che la Cina sia uno stato unitario multietnico, un principio che le autorità comuniste concepirono già prima della fondazione della Repubblica Popolare Cinese, quando le minoranze nazionali furono private del diritto di autodeterminazione e secessione dalla madrepatria.

Storicamente, la nascita dell’idea di una nazione cinese risale all’epoca coloniale, quando le élite politiche e culturali effettuarono una ridefinizione politica dell’unità imperiale in termini moderni, applicando i principi di territorialità e sovranità allo stato cinese, una transizione istituzionalizzata con la rivoluzione del 1911 e con la nascita della Repubblica.
In risposta alla penetrazione imperialista, i confini del nuovo stato furono fatti coincidere con quelli imperiali, così come figuravano precedentemente all’aggressione da parte delle grandi potenze. L’ereditarietà di quei confini, rivendicata anche dal Partito Comunista Cinese, ha reso la Cina una naziona atipica, contenitore di gruppi etnici diversi fra loro, riconosciuti ed identificati con criteri tutt’altro che scientifici.

Oggi, l’antagonismo politico tra Cina e Occidente si nutre della tensione fra nazionalismo cinese e nazionalismo locale: nel mondo occidentale le rivendicazioni nazionali tibetana ed uigura incontrano il favore dell’opinione pubblica, poggiando su un generale consenso nei confronti dei principi di autodeterminazione dei popoli e di stato-nazione, secondo cui ogni nazione è legittimata ad essere un’unità politica. Ma in Cina questi principi sono tutt’altro che condivisi e addirittura risultano sovvertiti attraverso un’affermazione dell’unità indissolubile della patria, costituita dall’unione storica e volontaria di cinquantasei gruppi ‘etnici’.

Nell’immaginario occidentale, l’idea di stato-nazione è fondata su una corrispondenza, il più delle volte fittizia ma comunque percepita come reale, fra i confini politici di uno stato e quelli etnici di una popolazione. L’idea di Zhōnghuá Mínzú poggia invece su categorie mentali differenti, principalmente perché formatasi di riflesso all’estensione dell’impero cinese, cioè su un’unità politica che non poteva né intendeva trovare la sua giustificazione d’essere in un’identità etnica, bensì in un processo di assimilazione culturale, economica e tecnica. Anticamente, il gruppo dominante han non si formò in virtù di una comunanza etnica, di fatto inesistente, ma sulla base di una condivisione di un modello di vita economico, di natura agricola, e di una concezione culturale confuciana, che improntò le relazioni politiche ad un forte ritualismo.

Solo in seguito all’aggressione coloniale lo stato cinese ricercò il suo elemento di aggregazione sul piano politico, anziché su quello culturale. Questo perché l’imperialismo evidenziò che era impossibile nella realtà moderna mantenere un’unità culturale senza un forte controllo politico del territorio nazionale. La centralità culturale han perse in epoca coloniale la sua forza coesiva di fronte agli altri gruppi, e poté essere ripristinata solo su nuove basi, ovvero su un controllo diretto delle regioni periferiche, in passato assente.

Sulla base di ritrovamenti archeologici e di testimonianze storiche, oggi l’inizio del processo di edificazione nazionale cinese viene fatto risalire a scambi fra varie culture di epoca neolitica fiorite in differenti luoghi della Cina. Secondo le moderne teorie sulla nazione cinese, questi contatti si intensificarono nei secoli, attraverso guerre e processi di integrazione, assimilazione e fusione, da cui si generò un’essenziale interdipendenza fra le etnie, con il gruppo han che emerse gradualmente come forza centripeta dell’impero per il suo maggiore grado di sviluppo tecnico e culturale. Tuttavia, uno dei fattori che ha permesso il mantenimento dell’unità imperiale fino all’epoca moderna è stato anche il carattere ricettivo della cultura han, in grado, ad esempio, di armonizzare una coesistenza con il credo religioso buddhista e con quello islamico.

Rispetto a questo processo storico, la nazione cinese si contraddistingue dallo stato-nazione occidentale per essere uno stato unitario pluralistico, cioè un’entità basata sull’unione di diversi soggetti, legati da vincoli di interdipendenza, da una comune memoria storica e perciò da una comune coscienza che li rende inscindibili per la loro stessa sopravvivenza.

La definizione dello stato cinese si fonda perciò su due termini apparentemente contraddttori, quello dell’integrità e quello del riconoscimento della molteplicità all’interno di essa, tuttavia il sistema è concepibile solo in equilibrio fra le due condizioni, poiché uno sblanciamento verso il principio di integrità determinerebbe la negazione della diversità, così come un eccessivo riconoscimento del pluralismo diventerebbe negazione dell’unità nazionale.

La questione etnica in Cina nacque sul piano teorico in epoca coloniale, ma in pratica si pose solo dopo il 1949, quando i comunisti cinesi riuscirono a ripristinare l’integrità territoriale. Se teoricamente essi si preoccuparono di garantire il riconoscimento della natura pluralistica dello stato attraverso il riconoscimento giuridico dell’autonomia e del principio di uguaglianza fra i gruppi etnici, di fatto le esigenze di controllo politico si sono risolte in una centralizzazione, alla base dell’attuale egemonia sociale ed economica dell’elemento han.
Secondo una delle chiavi di lettura possibili, le tensioni etniche contemporanee potrebbero perciò essere ricondotte ad uno sbilanciamento dell’equilibrio fra il principio di unità e quello di molteplicità a scapito di quest’ultimo. Se la maggior parte delle minoranze nazionali ha subito nel corso dei secoli un’opera di inarrestabile assimilazione da parte del gruppo dominante han, popolazioni come quelle uigure e tibetane mantengono tuttora un’identità fortemente distinta, in cui la condivisione di uno stesso credo religioso e di una lingua propria hanno assunto un fortissimo ruolo simbolico di resistenza.

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