Lingue di confine (fotoracconto)

In by Simone

Vado lontano da Tian’anmen, la Porta della pace celeste. Vado lontano da Pechino, lontano dal centro, fino ai confini più remoti di questo paese che – laggiù – quasi non è più Cina. Trovo altri mondi, abitati da genti che sembrano appartenere ad epoche lontane: oggi solo due o tre giorni di treno, verso ovest o verso sud.

Queste immagini raccontano il viaggio in questi luoghi attraverso le lingue che quelle genti usano per declinare il loro immaginario di vita e morte. Sono linguaggi antichi, troppo lontani da Pechino per uniformarsi al cinese mandarino standard, ma troppo piccoli per sentirsi al sicuro dal pericolo di un’omologazione programmata dal centro e rinnovata ogni cinque anni. Queste sono le lingue al confino.

Quaggiù, i cinesi di etnia han si stabilirono solo dopo la rivoluzione portando, oltre al progresso e alle strade, la loro cultura e la loro lingua. Così queste terre, che durante i millenni furono considerate province lontane, regni amici o vie di scambi commerciali, diventano i luoghi dove si consuma il delicato incontro tra la Cina han e l’altro. La Cina è arrivata in fretta e l’altro, quando è nata la Repubblica Popolare, non ha potuto che darle il “benvenuto”. Solo la costa orientale rimane fuori da questo discorso, perché, appunto, confina con il mare. Da nord a sud, da est a ovest: i posti di confine trattengono un connubio di lingue e razze che, poco a poco, diminuiscono fino a sparire nel centro del paese. Qui la Cina è ormai moderna, multiculturale e internazionale.

Alle sue estremità, invece, si parlano ancora le lingue indigene, oggi categorizzate come lingue minori o lingue delle minoranze. In quanto veicoli di identità, queste lingue diventano strumenti di resistenza culturale. Negli ultimi anni numerose manifestazioni e proteste civili in varie parti della Cina, hanno dimostrato l’esigenza di queste genti di affermare il diritto allo studio e all’uso della propria lingua. Purtroppo troppo spesso, specie nelle zone più “sensibili” come il Tibet o lo Xinjiang, queste manifestazioni diventano rivolte soppresse con la forza e sconfitte dal silenzio.

È una gioia vedere o immaginare che oggi, in quei luoghi remoti, la lingua ufficiale se ne sta rinchiusa nelle stanze di governo mentre all’aria aperta, tra il popolo, tradizioni e favole, gioie e dolori, amore e odio sono raccontati attraverso segni e suoni diversi, originali. I viaggi ai quattro angoli del paese permettono questo racconto tra lingue e microlingue che convivono con il cinese mandarino, minimo comune denominatore, ma secondo rispetto alle lingue proprie che ogni gente e ogni luogo ancora conserva.

L’alfabeto mongolo ci appare all’estremo nord del paese, sulle insegne commerciali di Alihe, paesotto della contea di Jiagedaqi, Mongolia Interna. Questa è una terra che sembra soffrire molto meno rispetto ad altre dell’uso del cinese mandarino. Nelle immense praterie, però, contadini e tradizioni parlano mongolo.

Al centro dell’Asia, a Urumqi e Yutian, l’estremo occidente cinese, vivono le lettere arabe della lingua uigura e quelle cirilliche degli alfabeti degli ex stati satelliti russi, quelli che finiscono in -stan. Il cartello a Yutian con una bambina cinese dice, in cinese mandarino: «Le bambine non sono meno capaci dei bambini. Chi l’ha detto che le bambine non sono intelligenti come i bambini?».

Forse è un passo avanti delle autorità nella lotta alle discriminazioni di genere. Peccato che solo chi legge caratteri cinese potrà capirlo! È tristemente in linea con le politiche governative, che prevedono, entro il 2020, di far entrare il cinese mandarino nelle scuole fin dal primo grado di istruzione.

Nella stessa regione, in quella terra sperduta sopra l’altopiano Tibetano che è abitata da Kirghisi, Tagiki e Kazaki, tra le moschee e le scuole, le lettere sono sempre arabe, ma la lingua è quella dell’etnia Kazaka. Vita dura per proteggere adeguatamente queste minoranze linguistiche, in una provincia che già non è più a maggioranza uigura.

Alle pendici del monte Changbai, confine naturale con la Corea del Nord, abita la etnia coreana con la sua lingua. Il nord-est cinese, forse per la sua posizione strategica, è senza dubbio la zona che ha coltivato di più il sentimento e la lotta rivoluzionaria, di cui si è permeata. Pertanto il livello di omologazione alla lingua ed alla cultura han, che poi va di pari passo con lo sviluppo, è notevole rispetto alle altre zone di confine.

A sud, a Ruili, l’ultima città cinese prima della Birmania, trovo le lettere di un altro alfabeto sconosciuto, quello birmano. Qui convivono l’etnia cinese tai e i birmani; qui la festa di primavera coincide con feste religiose indigene che portano in processione i nuovi piccoli monaci. Accettati dai monasteri, cominciano la loro vita religiosa a nove o dieci anni, in una festa gioiosa tra parenti, preghiere, fiori e offerte al Buddha.