“Article 4. All nationalities in the People’s Republic of China are equal. […] The people of all nationalities have the freedom to use and develop their own spoken and written languages, and to preserve or reform their own ways and customs.” (Costituzione Repubblica Popolare Cinese 1982)
L’identità multietnica costituisce ancora oggi un punto fondamentale dell’ordinamento dello Stato cinese. Quest’ultimo, se da un lato incoraggia la promozione e lo sviluppo delle peculiarità culturali e linguistiche di ciascun gruppo, dall’altro tende a proporre e imporre l’ egemonia culturale han (il gruppo etnico maggioritario che costituisce circa il 92% della popolazione). Le misure politiche adottate, inoltre, dietro l’obiettivo della modernizzazione celano spesso intenti assimilazionisti.
A partire dalla fondazione della repubblica nel 1949 fino ad oggi, l’atteggiamento del governo centrale è stato estremamente mutevole in materia di politiche per le minoranze e ha oscillato tra assimilazione e pluralismo.
“Minzu tuanjie”, “hexie guanxi” (“fratellanza tra i gruppi”, “relazioni pacifiche”) sono tra gli slogan più diffusi che esaltano l’unione e la relazione pacifica e armonica tra i 56 gruppi etnici: la tutela del pluralismo culturale e linguistico passa per lo stretto controllo politico di eventuali rivendicazioni indipendentiste e allo stesso tempo produce valutazioni e interpretazioni culturali forzate di ogni tipo sulle identità, spesso errate e superficiali (“le donne Miao hanno costumi sessuali licenziosi”, “i tibetani non mangiano pesce perché è una divinità”).
Nel campo dell’istruzione, le misure politiche adottate per le minoranze insistono su due punti principali: assicurare l’adesione e il coinvolgimento diretto all’ideologia nazionale e offrire la possibilità di studiare la propria lingua, parallelamente al cinese.
Probabilmente, nel caso dei tibetani, l’identità linguistica è ritenuta dal governo un tema non certo sensibile quanto autodeterminazione, indipendenza e diritti umani. Di conseguenza, almeno a livello ufficiale, teoricamente è garantita la possibilità di studiare la propria lingua. D’altra parte consentirne lo studio, negli intenti del governo, dovrebbe favorire la stabilità politica nelle zone tibetane. In ogni caso non esclude un obiettivo che potrebbe avvenire in futuro: la scomparsa del tibetano, come altre lingue minoritarie, a favore di un uso sempre più diffuso del cinese per le esigenze del mercato.
D’altra parte conciliare la necessità di un’istruzione moderna con lo studio della propria lingua, parallelamente all’acquisizione del cinese è un compito arduo che raramente ha prodotto risultati soddisfacenti: alcuni gruppi come i tibetani e gli uighuri sono poco inclini ad accettare passivamente le politiche moderne in materia d’istruzione, dal momento che vantano un’ eredità culturale antica quanto quella cinese, con proprie forme tradizionali e radicate della trasmissione del sapere legate alle istituzioni religiose buddhiste e islamiche. Inoltre le condizioni carenti delle infrastrutture e la scarsa disponibilità di insegnanti qualificati, spesso non consentono il raggiungimento neanche di obiettivi minimi.
I modelli scolastici implementati risentono fortemente delle situazioni locali e variano dall’uso di curriculum esclusivamente in lingua cinese, all’impiego parallelo di due lingue, all’uso esclusivo della lingua locale parallelo all’insegnamento del cinese base. Un caso particolare è costituito dalle neidiban (letteralmente “classi della Cina interna”): negli anni ’80 furono istituite per tibetani e uighuri scuole speciali nella maggior parte dei centri urbani cinesi, lontane dalle regioni autonome del Tibet e del Xinjiang, al fine di formare parlanti bilingui di cinese e lingua d’origine. Al termine del percorso scolastico, oltre alle competenze linguistiche, gli studenti tornano al luogo di origine con un bagaglio di esperienze maturate nelle zone han, che ha un impatto notevole sulla realtà locale e li pone in una situazione diversa da quella dei coetanei: di solito non sono in grado di parlare bene la lingua d’origine ma sanno bene il cinese e hanno sviluppato un modo di pensare e di vivere più vicino a quello han.
Spesso la lingua è percepita dai tibetani come una delle caratteristiche più salienti per l’auto identificazione e l’auto riconoscimento: è ciò che crea un legame saldo con la famiglia e la comunità e fa sentire diversi rispetto agli altri.
Oggi, nonostante l’allarme delle comunità tibetane in esilio sull’imminente scomparsa del tibetano, l’identità linguistica è molto sentita dai giovani, in genere soprattutto quelli con un livello d’istruzione superiore, che spesso colgono una relazione diretta tra lingua e identità stessa. Tra i ragazzi tibetani è generale un sentimento di avversione verso lo studio del cinese, anche se molti ammettono che sia necessario studiarlo per aprirsi la strada a migliori opportunità lavorative. La maggior parte parla solo in tibetano con gli amici e con la famiglia e raramente stringe amicizia con coetanei cinesi.
Tuttavia anche all’interno della comunità tibetana non mancano i contrasti. I tibetani in Cina sono insediati non solo nella regione autonoma del Tibet ma anche nelle regioni cinesi del Qinghai, Sichuan, Gansu e Yunnan: non è possibile parlare di una sola e compatta identità tibetana. Il quadro è invece molto complesso e risente notevolmente del contesto sociale e culturale locale e dei rapporti storici maturati con gli altri gruppi etnici presenti.
L’area di diffusione della cultura tibetana è un territorio così vasto e variegato nella distribuzione della popolazione, che è difficile riscontrare gli stessi modi di esprimere il comune culto religioso e tanto meno una forma del tibetano parlato intellegibile a tutti poiché, come sostiene un proverbio tibetano, “ogni maestro ha la sua dottrina, ogni valle ha il suo dialetto”.
Quando tibetani provenienti da zone diverse si trovano a vivere insieme, non è escluso che inizialmente possano incontrare difficoltà di comprensione linguistica e culturale. E’ quello che sperimentano molti studenti tibetani arrivati a Pechino all’Università per le minoranze quando si ritrovano per la prima volta lontano da casa a confrontarsi con tibetani dai background geografici e culturali più diversi. In questa occasione il proprio dialetto si arricchisce di significati più profondi e spesso diventa uno dei più accesi motivi di contrasto tra i tibetani stessi.
Nel corso di una conversazione, una ragazza tibetana del Tibet ha affermato: “I tibetani del Qinghai sono i discendenti dei soldati di Songtsen Gampo, non usano gli onorifici e hanno una pronuncia molto forte, anche dal punto di vista culturale, non voglio dire che siano rozzi, ma sono diversi da noi.”
Quanto ai compagni di classe che provengono dal Tibet, una ragazza tibetana proveniente da una zona esterna al Tibet, ha precisato: “I tibetani del Tibet si vantano di essere i soli tibetani autentici, loro hanno un sacco di facilitazioni e ampi margini di autonomia per lo status di Regione Autonoma, credono che Lhasa sia l’unico centro culturale in tutta l’area tibetana, sono arroganti e presuntuosi, e non sopportano quelli che vengono da Amdo e Kham, credono che non sappiamo parlare tibetano.”
Quello che risulta più evidente è una frattura abbastanza profonda tra studenti provenienti dalla Regione Autonoma del Tibet e tutti gli altri. Il peso politico e l’attenzione attribuita al Tibet, anche in termini di misure politiche preferenziali accordate sulla base dello status di regione autonoma, hanno nel corso del tempo fatto percepire ai tibetani residenti nelle altre regioni, l’impressione di essere “tibetani di serie b.”
Eppure, qualcuno pensa che l’orgoglio per il proprio dialetto e il proprio luogo di origine andrebbero messi da parte per dare più importanza alle comuni radici culturali e c’è chi sarebbe addirittura disposto a studiare il dialetto del Tibet centrale per realizzare una sorta di tibetano standard che possa agevolare la comunicazione. Alcuni sono infatti preoccupati che le divisioni interne possano influire negativamente sulla preservazione e trasmissione della cultura tibetana e si impegnano ad organizzare attività che incoraggino il dialogo culturale e linguistico, come le gare di dialetto nei dormitori a cui tutti possono partecipare, l’unica condizione è parlare esclusivamente una variante del tibetano che non sia la propria.
Anche alcuni docenti tibetani rivelano la stessa preoccupazione: “I ragazzi tibetani non vogliono studiare la lingua di Lhasa, pensano che sia sufficiente e giusto parlare solo il proprio dialetto. Per molti di loro, arrivare a Pechino è la prima occasione per allontanarsi dalla loro valle. Noi li spingiamo a studiare la lingua di Lhasa, quando hanno un insegnante che parla un dialetto diverso molti non capiscono le lezioni. In realtà la mia preoccupazione è anche per il futuro: i tibetani senza una lingua parlata comune, sono destinati a essere in posizione di crescente svantaggio, è fondamentale che si inizi a studiare un unico dialetto comune, accanto al proprio, ed è ovvio che debba essere quello di Lhasa.”
L’identità linguistica ha chiavi di lettura diverse che, oltre a essere condizionanti per la percezione dell’identità individuale, problematizzano l’identità del gruppo tibetano stesso. E’ interessante notare che, al di là del discutibile successo del governo nell’assicurare un’istruzione bilingue e dei contrasti interni alla comunità tibetana, esista una consapevolezza del problema linguistico abbastanza diffusa, tale da causare iniziative spontanee significative che lasciano sperare che l’estinzione del tibetano non sia davvero così prossima.